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mercoledì 31 dicembre 2008

Le dîner des artistes ovvero il festival tlazzesco del cuscus

L'altra sera mi sono divertito a preparare una cena "etnica" per alcuni amici, tutti artisti tranne il sottoscritto (siamo precisi, tre violiniste, un violista e uno scultore, una vera rarità!), abbuffata dedicata alla cucina marocchina, a base di cuscus e con il corredo di intingoli vari.
Ho pensato quindi di condensare in un unico articolo un po' di ricette per preparare alcuni piatti dai sapori piuttosto differenti: agro-dolce, dolce-salato, speziato.

Le cene tematiche sono le mie preferite, è un po' come andare al ristorante in vena di spendere, si assaggiano varie cose e si può scegliere secondo i propri gusti, ordinando quattro o cinque portate e senza pagare il conto.
Mancava solo la quarta artista: la danzatrice del ventre.

Insomma, approfittando delle mezze ferie autoproclamate mi sono messo in cucina un paio d'ore prima dell'ora "ufficiale" di cena, per preparare (o finire di preparare) le seguenti pietanze:

  • l'immancabile condimento del sultano, a base di ceci, pinoli, uvetta e soprattutto cipolla, di cui ho già relazionato a suo tempo;
  • pollo allo zenzero
  • spezzatino di cavallo alla frutta
  • agnello alle olive e limone in conserva
  • pollo speziato
  • cuscus con verdure
In effetti il cavallo l'avevo già messo in cantiere da mezzogiorno, lasciando a mia moglie l'incombenza di spegnere verso le 4 del pomeriggio, per continuare successivamente.

I dolci, lo ammetto, non erano propriamente tematici, però ci siamo sacrificati con estremo senso di abnegazione, anzi, colgo l'occasione per ricordare a Francesco e Katia di procurare la pantagruelica ricetta (rigorosamente in latino e scritta sulla pergamena) del certosino di Bologna che ci hanno portato e nel quale voglio fortissimamente cimentarmi.
In realtà avevo preparato due giorni prima la torta di arance, mandorle e cardamomo, la quale, pur non essendo marocchina, ha radici arabe e/o ebraiche, ancora devo capire visto che non sono riuscito a risalire alla fonte precisa e della quale, per il momento, dovrete accontentarvi della foto :-)

torta mediorientale alle arance e cardamomo

Al confronto il cenone di fine anno sarà una passeggiata.
Cominciamo dal piatto più semplice, escludendo le olive in salamoia comprate senza ritegno.

Pollo allo zenzero
:
1kg di pollo in parti oppure 8 fusi o sopracoscia di pollo (così a tutti tocca la stessa parte e si rimane amici)
2 spicchi d'aglio
1 cipolla grande
1 cucchiaino raso di zenzero in polvere o un cucchiaino di zenzero fresco tritato.
pepe q.b.
sale q.b.
brodo di carne q.b.

far soffriggere gli spicchi d'aglio nell'olio e poi aggiungere i pezzi di pollo in una padella, rosolandoli per bene su tutti i lati. Aggiungere la cipolla, lo zenzero, il pepe macinato e continuare a rosolare per qualche minuto, poi aggiungere brodo o acqua finché il livello del liquido non arriva a metà della carne. Coprire con coperchio e cuocere per circa un'ora, girando i pezzi di pollo ogni tanto. Salare verso la fine, assaggiando per fare qualche aggiustamento se necessario. Si tratta di un piatto molto semplice che dovrebbero sopportare anche quelli che non amano molto le spezie e si abbina bene con il condimento del sultano.

spezzatino di cavallo alla frutta:
per questo piatto ho usato il cavallo anche se la ricetta originale prevedeva agnello... non so se in Marocco si consumi carne di cavallo, in ogni caso è quello sparito dalla circolazione per primo!

1kg circa di carne per spezzatino di cavallo
1 cipolla grande
2 spicchi d'aglio
3 cucchiaini di miele
1 cucchiaino di cannella macinata
1 cucchiaino di zenzero macinato
100g di prugne disidratate
100g di albicocche disidratate
10 grani di pepe nero
2 chiodi di garofano
2 bicchieri generosi di vino bianco, abbastanza da arrivare quasi a coprire la carne.
grattatina di noce moscata
sale q.b.
acqua q.b.

se avete tempo fate marinare la carne in vino e aglio dal giorno prima, se no pazienza, viene bene lo stesso. Prendete una pentola dai bordi alti e fate un soffritto di aglio e cipolla tritata. Quando sarà ben dorata aggiungete la carne e fatela rosolare su tutti i lati. Quando la carne avrà preso colore, aggiungete un paio di bicchieri di vino bianco. Aggiungete quindi i chiodi di garofano, il pepe in grani, la cannella macinata, lo zenzero, la noce moscata e il miele. Coprite e fate andare a fuoco basso per almeno 4 ore, controllando il livello del liquido e aggiungendo un po' di acqua se necessario. Se tenete il coperchio ben chiuso non dovrebbe essere necessario. Dopo circa 3 ore aggiungete le prugne e le albicocche. Poi assaggiate e aggiustate di sale portando a termine la cottura.

a sinistra il pollo allo zenzero, al centro il cuscus con sopra il condimento del sultano, a destra lo spezzatino di cavallo alla frutta

agnello alle olive e limone in conserva:
750g di carne per spezzatino d'agnello
1/2 limone in conserva (lo vendono nei negozi arabi)
1 cipolla grande
brodo q.b.
una ventina di olive miste (ottime quelle in salamoia con scorze di limone)

mettere a marinare l'agnello nel vino, con un paio di spicchi d'aglio e tre o quattro chiodi di garofano il giorno prima. In una padella mettete un filo d'olio per far rosolare la carne. La carne dev'essere asciutta quando la mettete in padella se non volete trovarvi a pattinare sul pavimento della cucina... Mentre la carne rosola, approfittatene per tritare la cipolla grossolanamente e tagliare a striscioline la scorza del mezzo limone in conserva. Quando la carne sarà ben dorata su tutti i lati, unite la cipolla, fatela rosolare per bene, poi unite le striscioline di limone e il brodo, sufficiente per mantenere la carne a bagno, ma senza arrivare a coprire la carne. Cuocere con coperchio a fuoco medio per un paio d'ore, meglio se due e mezza o addirittura tre, tenendo sotto controllo il livello del liquido e aggiungendone se scarseggia. Aggiungere le olive dopo un'oretta.
Alla fine potete far restringere togliendo il coperchio e alzando il fuoco. Io ho usato olive marinate in una salamoia con scorze di limone e le ho trovate ottime per questo piatto.

spezzatino di agnello alle olive e limone in conserva

pollo speziato:
6 pezzi di pollo (sopracoscia o fusi)
150g di prugne disidratate
30g di burro
3 cucchiaini di miele
3 cucchiaini di succo di limone
3 cucchiaini di acqua di rose
2 cucchiaini rasi di ras el hanout
1 cipolla media
brodo di carne q.b.
sale q.b.

sciogliere a fuoco basso il burro in una padella e versare i 2 cucchiaini rasi di ras el hanout. Mescolare bene per un minuto. Alzare il fuoco e aggiungere i pezzi di pollo lasciandoli un minuto circa per lato, poi toglierli dalla pentola e metterli da parte. Nel frattempo tagliare una cipolla a rondelle che farete soffriggere nella padella per 5 minuti a fuoco medio. Trascorsi i 5 minuti aggiungete le prugne disidratate, il miele, il succo di limone e l'acqua di rose, poi rimettete i pezzi di pollo e aggiungete il brodo (o acqua con dado). Aggiustate di sale se necessario. Fate cuocere con coperchio per quasi un'ora, girando i pezzi di pollo ogni tanto.

pollo speziato con cuscus

Questo pollo ha un deliziosa sfumatura dolce e profumata.

Per la cottura del cuscus rimando al già citato articolo sul cuscus del sultano.

Insomma, se per il cenone di fine anno starò a dieta, sapete perché.

domenica 28 dicembre 2008

Sopa de habas - Zuppa di fave

La zuppa di fave, sopa de habas, è una zuppa messicana classica.


Anche se forse non è famosa come la sopa de tortilla o quella di flor de calabaza, è pur sempre una zuppa assai popolare e ne esistono varie versioni. Quella che propongo io è quasi identica a quella presa dal mio libro di ricette messicane preferito, con qualche immancabile licenza poetica personale.
Che possiamo dire delle fave mentre arriva ora di cena?
Per molti anni sono state un cibo ignoto, in casa mia non si mangiavano mai per qualche imponderabile motivo, poi un giorno le ho comprate secche e da allora ho imparato a farle in vari modi. In Messico le fave sono arrivate con gli spagnoli, ma non riscossero un grande successo nei primi tempi. Oggi invece è facile trovare le fave tostate e insaporite con sale, limone e chile piquín ed è un piacere sgranocchiarle con un aperitivo.
Per chi volesse approfondire i retroscena leguminosi, ecco un piccolo pamphlet in spagnolo che copre gli ultimi 5.000 anni di storia della fava.
Da notare che le fave sono un alimento che può causare seri problemi a chi soffre di favismo.
Essendo una malattia genetica, o si soffre di favismo oppure no, per cui le fave sono del tutto innocue per chi non è affetto da questa malattia ereditaria.


Ingredienti:
250g di fave secche
400g di pelati (1 scatola)
1 litro di brodo
1 cipolla piccola
2 spicchi d'aglio
acqua q.b.
pane q.b.
sale q.b.
olio (di mais o di oliva) q.b.
prezzemolo q.b.
chile guajillo (1 pezzetto, opzionale)
cannella macinata (1 pizzico, opzionale)
mezza foglia di alloro (opzionale)
pepe nero macinato (opzionale)


Procedimento:
mettere le fave secche pelate a bagno almeno 12 ore prima, meglio se 24. Cuocerle per almeno un'ora in acqua salata, con la mezza foglia di alloro. Schiumate se necessario.
Quando le fave saranno cotte, cioè quando si spappolano, frullarle assieme all'acqua di cottura. In una pentola di terracotta preparate un soffritto con aglio e cipolla e peperoncino. Quando l'aglio sarà ben dorato, toglietelo. Aggiungere i pelati o i pomodori freschi senza pelle e farli cuocere per un quarto d'ora, poi aggiungere le fave frullate, il pepe macinato ed il pizzico di cannella. Fate restringere fino ad ottenere una consistenza abbastanza cremosa. Mentre la zuppa si restringe, preparate il pane, tagliandolo a rondelle e facendolo friggere in una padella con poco olio o burro. Tipicamente si usa pane tipo bolillo per questa preparazione, ma in mancanza di bolillos si può usare baguette o perfino pancarré tagliato a quadretti. Le fettine di pane sono pronte quando sono belle croccanti e di colore dorato.
Al momento di servire aggiungere prezzemolo tritato se gradito.

venerdì 26 dicembre 2008

Pan a la méxicana: bolillos

Se la tortilla è sicuramente la vera protagonista della cucina messicana, ciò non significa che in Messico non si produca pane come in tante altre parti del mondo. I bolillos sono la forma di pane più comune e si consuma prevalentemente a colazione o come base per i molletes.
I bolillos si riconoscono per la forma a ogiva, mentre il pane di forma ovale con due incisioni longitudinali sopra è noto con il nome di teleras, ma l'impasto è lo stesso. Con las teleras si possono fare le famose tortas, cioé la versione messicana del nostro panino imbottito. Per cui se vedete un'insegna con scritto "TORTAS" non aspettatevi di vedere una pasticceria, tipicamente ci sarà un baffuto signore con l'immancabile copricapo bianco che sta preparando hamburguesas a la plancha o al carbón, che poi sistemerà dentro al pane con un ricco accompagnamento di cipolla, avocado, pomodoro fresco, salse varie, chiles jalapeños o chipotles abobados e chissà che altro.
Non aspettatevi però di trovare pane al ristorante, all'ora di pranzo o di cena i messicani mangiano soprattutto tortillas di mais al centro-sud o di grano al nord.


A colazione è tipico spalmarli di burro e cospargerli di zucchero o marmellata.

Ingredienti:
500g di farina tipo 0
250ml di acqua
50g di strutto
10g di zucchero
10g di sale
1 lime (succo)
25g di lievito fresco oppure 7g di lievito attivo secco


Procedimento:
preparate il lievito mescolandolo con lo zucchero e un po' di acqua appena tiepida presa dal totale. Lasciatelo "lavorare" finché non avrà cominciato a formare un po' di schiuma.
Poi impastate la farina con il sale, il lievito, il succo di lime, lo strutto e l'acqua, lavorando l'impasto fino ad ottenere una pasta liscia ed elastica. Lasciare a riposo per un'ora. Prendere quindi l'impasto lievitato e lavorarlo per qualche minuto, poi suddividerlo in 8 parti uguali di circa 100g. Dargli la forma affusolata, metterli sulla teglia e schiacciarli leggermente con il palmo della mano. Spruzzateli d'acqua con un nebulizzatore e metteteli a lievitare finché non raddoppiano. È importante non esagerare con la lievitazione se no i panini tenderanno ad afflosciarsi. Nel mio caso è bastata circa un'ora, ma dipende dalla temperatura della stanza.


Quando sono più o meno del giusto volume, accendete il forno al massimo e spruzzateli ancora con l'acqua. È fondamentale la spruzzatura con acqua per la buona riuscita dei bolillos, perché questa operazione favorirà la formazione della crosticina. Quando il forno sarà ben caldo, infornarli e dopo circa 10 minuti o quando cominceranno a cambiare leggermente colore, tirateli fuori e spruzzateli di nuovo.
IMPORTANTE: NON SPRUZZATE MAI ACQUA DENTRO AL FORNO!
Rimetteteli dentro e lasciateli finché la crosta avrà assunto un bel colore marroncino chiaro.
Si conservano bene per qualche giorno in un sacchetto di plastica e si consiglia di riscaldarli qualche minuto in un fornetto per renderli fragranti.

lunedì 22 dicembre 2008

Che non si pensi che...

...quest'anno non abbia fatto la sbrisolona.

Anzi.

La tradizione è tradizione e la sbrisolona a Natale a casa mia non può mancare.
La ricetta è sempre quella, ma quest'anno ho usato metà mandorle non pelate, giusto per dargli una sfumatura di colore diversa.


Siccome ho usato tortiere di varie forme e dimensioni, ho pensato bene di fare delle mini-sbrisolone monodose.

venerdì 19 dicembre 2008

Shortbread fingers e il teorema di Tlazolteotl

Il motivo per cui mi piace spaziare con i gusti in cucina è sicuramente da attribuire alla mia non brevissima permanenza oltremanica. Quasi due anni e mezzo alla corte di Sua Maestà Britannica, mi hanno fatto scoprire un mondo gastronomico a me sconosciuto, perché, quando partii con la valigia di cartone e i tortellini nel sottofondo della ventiquattrore, la mia cultura culinaria spaziava al massimo dai pizzoccheri della Valtellina alle cassate siciliane.

Circa trecento ristoranti etnici dopo, i miei orizzonti gastronomici erano divenuti decisamente più ampi, giungendo persino ad apprezzare talune specialità della cucina locale, che, diciamocelo, non gode dei favori dei più.
Una delle specialità più note della cucina scozzese, sono gli shortbread fingers e io ogni tanto me li compravo in aeroporto, perché li adoravo e li adoro tuttora insieme ad una bella tazza di latte freddo.
Dicesi shortbread un biscotto in cui ci sia parecchio shortening, che sarebbe poi il condimento, la materia grassa, in parole povere il micidiale... burro. Per fare l'immancabile parallelo messicano, potremmo dire che gli shortbread sono l'interpretazione dei polvorones al di sopra del vallo di Adriano.
Fingers, cioé dita, perché si ricavano questi biscotti a forma di bastoncino, ma non è l'unica forma in cui potete trovare gli shortbread, anzi, ne esistono di rotondi, di grandi, di piccoli, con e senza scagliette di cioccolato.
Quelli più facilmente reperibili in Italia sono i Walkers ed infatti la mia ricetta è ricavata partendo dalle inequivocabili tracce lasciate dall'assassino sulla scatola (sarà stato il cuoco o il maggiordomo?), dove ci sono gli ingredienti e c'è, o per legge o per sbadataggine, il quantitativo in percentuale di burro, dichiarato il 31% del totale, preceduto dall'incognita farina di grano tenero.
Ora, io mi sono fatto due conti, ho ruminato un paio di shortbread ed ho tirato spannometricamente le mie algebriche conclusioni, come avrebbe fatto l'ottimo Sherlock Holmes.

Se parto con 250g di burro = 31/100*X, allora X= 250/31*100, cioé circa 806g.

Da cui segue che 806g-250g = 556g, tra farina, zucchero e sale.

Chiaramente il sale è presente in quantità limitata, benché gli shortbread abbiano una spiccata punta di salato che mi risulta assai gradita, quindi ammettiamo che siano i 6g che ci servono giusto giusto per arrotondare ad una bella cifra pari. A questo punto rimangono 550g tra farina e zucchero.
E qui scatta l'algoritmo euristico, cioè quello che funziona per tentativi fino ad ottenere la cosa giusta: parto con 400g di farina e 50g di zucchero, lasciando i rimanenti 100g in sospeso.
Assaggio e mi dico: troppo poco zucchero. Aggiungo 50g di zucchero e a dolce ci siamo.
Quindi rimangono 50g di farina che aggiungo al resto per dimostrare il teorema sugli shortbread di Tlazolteotl:
1 shortbread = 31% burro + 56% farina + 12% zucchero + 1% sale (arrotondando)

Elementare, caro Watson, pardon, Walkers.

Ingredienti:
450g farina tipo 0
250g burro
100g zucchero semolato o di canna tipo golden caster
6g di sale


Procedimento:
la lavorazione è veramente molto semplice: si prende il burro a temperatura ambiente e lo si mescola al resto degli ingredienti, lavorando questo impasto finché la consistenza sia abbastanza soda da poterlo stendere su un ripiano, prima con le mani e poi con l'aiuto di un mattarello per cercare di ottenere uno spesso uniforme, poi si tagliano i fingers (occhio a non sbagliarsi tagliando le dita vere...) e sono certo che sarete pure più precisi di me.


Si dispongono su una leccarda con un po' di spazio perché cuocendo si ingrossano leggermente e poi si infornano a 150° gradi per 30-35 minuti.


I biscotti devono rimanere di colore chiaro, quasi bianco e si conservano dentro a un bel contenitore di latta, magari quelli dei Walkers originali.


E se i servizi segreti inglesi vi dovessero chiedere chi vi ha passato la ricetta, keep your mouth shut!

:-)

mercoledì 17 dicembre 2008

Oggi stracotto

Siccome la stagione è propizia, in questi giorni, a detta del mio macellaio equino e solidale, e non solo lui, sembra ci sia la corsa a fare lo stracotto con la polenta.
Queste belle giornate umide e fangose evidentemente spronano le buongustaie ed i buongustai a preparare qualcosa di succulento e impegnativo, anche se lo stracotto in realtà è più una questione di pazienza che non di reale difficoltà.
Ho quasi sempre mangiato stracotto fatto a base di carne di maiale, ma questa volta ho deciso di provare quello di guanciale di cavallo, perché si sa, in mancanza dei somari, corrono soprattutto i cavalli!
Dico questo perché il mio macellaio di fiducia asserisce che, almeno in Emilia, di somari, a parte alcuni casi umani, non se ne vedono proprio, anzi, lui sostiene che se qualcuno vi spaccia della carne di somaro, o mente sapendo di mentire oppure chissà cosa vi sta rifilando.
Ci manca solo di dover fare la prova del DNA allo stracotto!


Ingredienti:
1kg di guanciale di cavallo (circa, non stiamo a guardare il grammo, a caval donato...)
2 cipolle medie
1 carota
1 gambo di sedano
1 foglia di alloro
mezza bottiglia circa di vino rosso o bianco di qualità
pepe nero in grani q.b.
2 spicchi d'aglio schiacciati
2 chiodi di garofano
cannella macinata q.b.
sale q.b.



Procedimento:
si prenda il guanciale e se il macellaio non ve l'ha già tagliato e pulito dai tendini, armati di un coltello affilato, togliete le parti dure. Aprite una bottiglia di vino rosso BUONO e sacrificatela, se ne andrà una metà abbondante e con la rimanente potrete consolarvi per il dispiacere :-)
Ma quale sarà un vino rosso adatto per lo stracotto?
Tenendo presente che lo stracotto è sicuramente un piatto di origine nordica (inteso come pianura padana in senso lato), probabilmente ciascuna zona usa un buon vino rosso locale, quindi c'è solo l'abbondanza della scelta e probabilmente c'è da iniziare un dibbbbattito su quale possa essere il vino che rende meglio, anche se de gustibus non disputandum est. Io opterei per un vino corposo invecchiato almeno un paio d'anni, meglio tre o quattro.
Insomma, il tavernello no, eh?
Prendete un contenitore di vetro, col tappo magari, e metteteci dentro i pezzi di carne, coprendoli col vino. Tagliate a rondelle una carota, una cipolla e mezzo gambo di sedano, schiacciate i due spicchi d'aglio e buttateli nella marinata insieme alle altre spezie. Io ho lasciato marinare la carne sul balcone in ombra per 36 ore, ma basta anche meno.
Quando finalmente sarà venuta l'ora di preparare lo stracotto, colate il liquido e mettete da parte la carne, raccogliendo le verdure e le spezie. Poi pigliate la carota, la cipolla e il sedano e fateci un bel soffritto in una pentola capiente, a cui aggiungerete la carne, che va fatta rosolare a fuoco vivo per alcuni minuti.
C'è chi la infarina prima di rosolarla, ma non mi sembra fondamentale.
Quando la carne sarà ben rosolata su tutti i lati, aggiungete il liquido della marinatura. Le verdure della marinata potete tritarle a loro volta e aggiungerle assieme alle spezie che avete filtrato. Una volta raggiunto il bollore, abbassate il fuoco al minimissimo e continuate la cottura rigorosamente con coperchio per almeno 5 ore. Il liquido non deve asciugarsi completamente, se no finisce che lo stracotto s'attacca, ma deve un po' addensarsi man mano che evapora lentamente.
E se dopo aver giustiziato lo stracotto dovesse avanzare un po' di condimento con qualche rimasuglio di carne, tenete presente che ci si può condire la pasta, meglio se pappardelle all'uovo.


E in mancanza delle pappardelle, si prestano anche le mafalde.

sabato 13 dicembre 2008

Panforte di Siena

Potrei definire storica questa giornata perché grazie alla ricetta di Laura, attribuita alla fantomatica signora Merciai, oggi è stato infranto un tabù che durava più o meno da 40 anni, cioé da quando assaggiai per la prima volta il panforte di Siena e fu subito amore a primo morso. Peccato che Laura non abbia raccontato chi sia la signora in questione, questa benefattrice degli estimatori del panforte di tutto il mondo. Laura, attendiamo notizie!


Dopo aver scandagliato i molteplici recessi di Internet ed aver confrontato almeno 8 ricette, soppesato gli ingredienti, munito di frutta candita fresca appena acquistata e di molto ottimismo, ho partorito anche io l'oggetto del desiderio e l'assaggio è stato assolutamente liberatorio: habemus panfortem!
Il sapore addirittura meglio delle mie migliori aspettative, anche se magari a Laura la versione con le spezie non piace, mentre io l'adoro.

Per chi volesse saperne di più sulle origini di questa prelibata specialità, pare che l'antenato medievale del panforte sia stato un pane speziato al miele. Curiosamente il panforte è stato appannaggio per secoli di una ristretta cerchia ecclesiastica, per cui, da autentico buongustaio laico, non mi resta che plaudere alla breccia di Porta Pia gastronomica che ci fece finalmente conoscere questa squisitezza.

Le dosi della mia ricetta sono in funzione del diametro del mio stampo, a metà tra i due usati da Laura.

Ingredienti:
450g di mandorle (non pelate)
360g di frutta candita fresca (160g di cedro, 100g di arancia, 100g melone)
200g di farina tipo 0
200g di zucchero a velo (si prende quello semolato e si macina fine)
200g di miele d'acacia
mezzo cucchiaino raso di zenzero in polvere
un cucchiaino raso di cannella macinata
mezzo cucchiaino raso di chiodi di garofano macinati
mezzo cucchiaino raso di pepe nero macinato


Procedimento:
Per prima cosa conviene preparare la tortiera apribile.
Se avete l'ostia, dovete rivestire il fondo e le pareti, altrimenti fate come me, imburrate e infarinate, il panforte si staccherà senza nessun problema.
Come secondo passo tagliate grossolanamente la frutta candita a dadi, poi unitela in una zuppiera capace alla farina, alle mandorle e alle spezie. Mescolate bene questi ingredienti eterogenei che poi verranno legati dallo sciroppo. Per preparare lo sciroppo è sufficiente versare in un pentolino lo zucchero a velo, il miele e due-tre cucchiai d'acqua. Scaldate e mescolate finché non comincia a fare la schiuma, a quel punto spegnete e versate nella zuppiera dove ci sono gli altri ingredienti. Mescolare energicamente perché tende un po' ad indurire. Quando avrete ottenuto un composto ben amalgamato, basta qualche minuto, versate nella tortiera e pareggiate alla meglio la superficie, facendo pressione in modo che il panforte risulti uniforme.
Per queste dosi ho usato uno stampo apribile da 20cm di diametro per ottenere un panforte alto un po' più di due dita.

Infornate a 170 gradi per circa 35 minuti, minuto più, minuto meno, dipende anche dall'effettivo calore del forno. Quando la parte superiore avrà un colorito marroncino chiaro, toglietelo dal forno e lasciatelo raffreddare per un paio d'ore almeno. Una volta tolta la cerniera, spolverizzatelo di abbondante zucchero a velo.


Un'esperienza sublime per un cultore del panforte senese in contumacia.
Adesso mancano all'appello i ricciarelli e poi sarò pronto per richiedere la cittadinanza senese onoraria ;-)

giovedì 11 dicembre 2008

Un castagnaccio tlazzesco ovvero la patona dal Tlaz

Che posso dirvi del castagnaccio che non sia già stato detto e stradetto?
Il castagnaccio, tanto per cominciare, per me si è sempre chiamato "patona", perché in casa si parlava dialetto mantovano pur abitando a Modena.


Da quando mia moglie ha preso il sopravvento però il termine patona è caduto in disuso.
Se in Messico ci fosse un dolce equivalente, adesso io sarei qui a raccontarvi probabilmente di qualche fantomatica castañada o castañazo, ma in realtà, che sappia io, non esiste nessun dolce autenticamente messicano a base di castagne, benché in questo periodo si trovino pure là, forse d'importazione da Gringolandia.
Sia come sia, di ricette di castagnaccio ne esistono varie, quello basso, quello alto, quello col rosmarino, quello senza, quello con i pinoli, quello con l'uvetta, quello con tutte e due, quello asciutto e quello morbido. Se poi il castagnaccio non vi piace, tenete presente che potete sempre ripiegare su una torta meringata alla castagna...

Insomma, mentre voi decidete come volete 'sto castagnaccio, io vi racconto come ho deciso di farlo ieri sera...

Ingredienti: 500g farina di castagne
100g zucchero
550ml circa di latte
1 bustina di vaniglia
3+2 cucchiai d'olio extravergine (3 per l'impasto e 2 per ungere lo stampo)
sale q.b.
pinoli (opz.)
zucchero di canna tipo mascabado o piloncillo (opz.)



Procedimento:
miscelare la farina di castagne, lo zucchero semolato, il sale e la vaniglia. Versare un po' alla volta il latte fino ad ottenere un impasto semiliquido, la consistenza dev'essere tale per cui quando versate un cucchiaio di questa miscela, il liquido scenda come un filo costante.
Ungere uno stampo tondo o rettangolare, possibilmente antiaderente. Se abbondate un po' con l'olio viene meglio, creerà una crosticina di castagnaccio da fine del mondo.
Versare l'impasto e cospargere di pinoli, poi spolverizzare sopra un paio di cucchiai di zucchero di canna grezzo, meglio se quello scurissimo tipo il piloncillo messicano o il mascabado.


Infornare per circa 45 minuti a 200 gradi (o almeno così dice il mio forno, ma non so se bisogna credergli).
Uscirà un castagnaccio della consistenza che piace a me, cioè nè farinoso, nè sbricioloso, un po' umido.

Per finire in bellezza
Ho dovuto incatenarmi al letto per non mangiarmelo tutto ieri notte.

lunedì 8 dicembre 2008

Baccalà fritto o frittelle di baccalà?

Ci sono piatti che trascendono i confini regionali e la cui origine si perde nella nebbia della storia gastronomica del Paese.
Le frittelle di baccalà sono una di quelle specialità d'altri tempi rimaste praticamente inalterate e mi è capitato di trovarle ovunque sia stato, da Roma a Mantova, da Modena a Napoli, da Lucca a Venezia.
Anzi, a quanto pare il fish & chips, tanto popolare in Inghilterra, pare sia la variante albionica di questo sfizioso spuntino anche se, a dir la verità, continuo a preferire la versione nostrana, nonostante i miei trascorsi londinesi e la comune origine ha tutta l'aria di essere ebraica.


Il baccalà fritto è un classico sfizio da comprare al venerdì al banco delle rosticcerie dentro il mercato coperto di Modena, uno dei posti che mi piace frequentare in cerca di ispirazione culinarie, dove il profumo della frutta e della verdura si mescola con quello dei formaggi, del pesce fresco, del pane e chi più ne ha più ne metta.
I volenterosi possono invece farsele comodamente a casa ed io sono particolarmente contento perché la pastella, il punto cruciale della ricetta, è finalmente venuta veramente come piace a me, merito della ricetta del libro di cucina mantovana di Franco Marenghi, un libro di ricette preziose che sembra essere diventato difficile da trovare in commercio.


Ingredienti:
600-700g di baccalà dissalato (se no calcolate due giorni d'ammollo)
125g di farina
125ml di acqua
50ml di birra chiara
1 uovo
sale q.b.
qualche ciuffo di rosmarino (opz.)
prezzemolo tritato (opz.)
olio per friggere q.b.


Procedimento:
preparare la pastella con non meno di un'ora d'anticipo perché dovrete lasciarla riposare. Mescolare un pizzicone di sale con la farina e poi con l'aiuto di una frusta incorporare l'acqua e la birra, quindi l'uovo, mescolando continuamente per evitare grumi. Otterrete una miscela piuttosto fluida, nel senso che quando solleverete la frusta, il fluido scenderà regolarmente, non a blocchi o a gocce, ma proprio a filo.
A Modena si aggiunge frequentemente anche un po' di rosmarino tritato.
Mettete la pastella da parte per 60 minuti almeno.
Nel frattempo prendete il baccalà già dissalato (occorrono 2 giorni cambiando l'acqua ogni 12 ore) ed eliminate la pelle poi tagliatelo a pezzetti. I pezzetti li potete fare della misura che volete, a me piace fare dei bocconcini, anche perché friggo in un pentolino più piccolo usando meno olio, ma chiaramente i tempi si allungano.



Asciugate i pezzi di baccalà in attesa di unirli alla pastella.
Quando la pastella sarà pronta (non aspettatevi fenomeni particolari, l'aspetto sarà uguale a quando l'avete lasciata), unire i pezzetti di baccalà e mescolare bene.
A questo punto potete cominciare a scaldare l'olio ed a preparare il vassoio su cui riporre le frittelle.
L'olio dovrà essere caldo ma non troppo, la frittella dovrebbe friggere senza eccessivi spruzzi, se vedete ribollire l'olio e la frittella prendere colore troppo rapidamente, abbassate un po' la fiamma.
Le frittelle, della grandezza di un cucchiaio, si dovrebbero cuocere in 4-5 minuti al massimo e non dovrebbe essere necessario salarle alla fine, perché sia il pesce sia la pastella lo sono già.
Se volete potete spolverizzarle con del prezzemolo tritato fresco.

Con la pastella avanzata si farà una frittella speciale, senza baccalà, o per meglio dire, col baccalà fujuto, da litigarsi fra buongustai.

Ma gli spaghetti al pomodoro voi come li fate?

A grande richiesta di un gourmet di Carpi (Chérp per gli indigeni), al quale ho il privilegio di tirare qualche volta le orecchie per questioni di lavoro, ma che, nonostante le mie intemerate, continua a rivolgermi la parola, oggi si parla di un grande assente dalla maggioranza dei blog di cucina: gli spaghetti al pomodoro noti anche come spaghetti alla pummarola.


Sarà perché la ricetta degli spaghetti al pomodoro viene ritenuta talmente basilare che nessuno si prende la briga di dedicargli 5 minuti, sarà forse per timore di venire sbeffeggiati da qualche napoletano DOC, insomma, a me finora non è mai capitato di vedere uno straccio di articolo (semi)serio dedicato al più grande classico della cucina italiana. O forse sono io che vedo solo quel che mi fa comodo... ;-)

Questa cosa me l'ha fatta notare proprio il gourmet in questione, "sì va bene, queste ricette che non fa nessuno, ma parliamo di qualcosa di concreto, di spaghetti al pomodoro!".
Caspita, quest'uomo ha ragione, cosa posso replicare?!?
Touché!
come dicono i francesi.

In effetti devo dire che mi è capitato di mangiare spaghetti al pomodoro ottimi, buoni, discreti ma anche pessimi.
Segno che la ricetta non deve essere poi così banale come si pensa.

Secondo il mio arbitrario parere ci troviamo fin da subito davanti ad un bivio: il pomodoro.
Usiamo il fresco o no?
Io, per abitudine, uso pelati in scatola.
E qui lancio un altro guanto di sfida: a me la conserva non piace!

Mia madre era una di quelle che a fine agosto mi portava, obtorto collo, al mercato a comprare un quintale di pomodori e poi stava in ballo per due giorni con 'sta menata di farsi la conserva in casa. E a me non ha mai entusiasmato né quella di casa mia, né quella di casa altrui.

Il risultato finale è l'abolizione della conserva di pomodoro casalinga in favore dei pelati in scatola oppure pomodori freschi, se trovo dei pomodori San Marzano decenti.
Chiusa questa polemica parentesi, prendiamo senz'altro la strada del pomodoro pelato in scatola che, se è buono, produce un sugo assolutamente degno di nota ed ha il vantaggio di essere reperibile tutto l'anno.
Volendo, a questo punto, potremmo aprire un dibattito su quale sia il miglior pomodoro pelato in scatola, ma mi astengo appellandomi alla convenzione di Helsinki.
A casa mia si usano più spesso pelati Cirio, qualche volta Casar, Annalisa, Esselunga.
Qualcuno dirà:
- ah ma caro, ma tu ti tratti bene!
- ci manca solo che inizi a trattarmi male pure io!

A mio insindacabile giudizio ritengo che i Cirio siano più saporiti di altri e il risultato venga migliore. Con dei pelati così viene da chiedersi come abbiano fatto a portarla sull'orlo del fallimento.

Prima di passare veramente alla vexata salsa, lasciatemi sfoderare l'ultima polemica, questa volta patriottica: cosa sarebbero gli spaghetti alla pummarola senza il messicanissimo pomodoro, ossia l'azteco xitomatl?
Come potete constatare, (quasi) tutte le buone ricette portano alla Madre Tierra.
Nostalgia tremenda.

E adesso basta chiacchiere che a furia di scrivere mi è venuta fame.

Ingredienti x 2 con molta fame o x 4 con poca:
400g spaghetti n.5
1 scatola di pelati
2 spicchi d'aglio
7-8 foglie di basilico fresco
olio extra q.b.
sale q.b.
zucchero (q.b. se serve)
1 acciuga sott'olio (opz.)
peperoncino rosso secco (opz.)

Procedimento:
Prendete un pentolino a bordi alti, di circa 15 cm di diametro. Versate olio a sufficienza per coprire tutto il fondo e accendete a fuoco medio. Dopo un minuto mettete gli spicchi d'aglio schiacciati. Aprite la scatola di pelati, procuratevi un coperchio adatto al pentolino. Quando voglio una salsa piccantina, prima che l'aglio diventi tra il dorato e il marroncino chiaro, metto un po' di peperoncino rigorosamente guajillo, ma questa è una variante apocrifa.
Versare velocemente il contenuto della scatola di pelati e tappare il pentolino per evitare che la cucina diventi una pista di pattinaggio. Versate acqua nella scatola dei pelati fino a metà e approfittatene per sciacquare i bordi dalla salsa rimasta attaccata alle pareti. Versate quest'acqua nel pentolino, coprite e portate a bollore rapidamente, alzando il fuoco, dopo di che togliere il coperchio e proseguire a fuoco moderato. Con l'aiuto di un forchettone di legno, riducete in poltiglia i pelati.

Trucco numero #1: se volete dare una marcia in più al sughetto, mettete una piccola acciuga sott'olio, si scioglierà da sola nel corso della cottura.

Gli spicchi d'aglio li potete lasciare e tirare via successivamente oppure togliere subito se vi causano panico, il gourmet di Carpi dice che lui preferirebbe tirarli via. Io invece di solito li lascio. Occorre salare e assaggiare e se la salsa vi sembra un po' troppo asprigna, qui scatta il
trucco #2: aggiungere mezzo cucchiaio scarso di zucchero.

La cosa fondamentale per cavare una buona salsa di pomodoro, a mio immodesto parere, è evitare che rimanga troppo asciutta o troppo acquosa. A vedersi la salsa dev'essere una salsa, cioé non deve colare come se fosse acqua e non deve sembrare polenta. Dev'essere una via di mezzo.
Trucco #3: la salsa è praticamente fatta quando vedrete apparire i cosiddetti laghi. Quando vedrete formarsi in superficie, soprattutto ai bordi, delle chiazze di colore arancione brillante o rosso, ma non torbide, devono essere di colore vivo. Questo avviene dopo circa 20 minuti dall'inizio. Se siete bravi diciamo che dovreste trovarvi con la salsa pronta al momento di scolare la pasta :-)
Aggiungete le foglie di basilico fresco, mescolate e tappate col coperchio.
E spegnete il fuoco sotto al pentolino.

Se le chiazze non si formano perché la salsa è troppo spessa, significa che l'avete fatta andare a fuoco troppo forte, potete provare a rimediare aggiungendo un po' di acqua fino ad ottenere la giusta consistenza. Se avete esagerato con l'acqua, potete alzare un po' la fiamma per farla evaporare.

E qui veniamo all'apoteosi finale. A molti sembrerà un inutile passaggio, che fa solo sporcare un'altra pentola. E invece no, è fondamentale per condire a puntino la pasta e mi fu insegnato da un simpatico signore calabrese proprietario di un ristorante a Milano, una quindicina di anni fa, peccato non mi ricordi più come si chiamava quel posto, ma in compenso ricordo che mi disse: il trucco per fare dei buoni spaghetti al pomodoro è farli saltare in padella.


Prendete una padella, mettetela sul fuoco vivo (quello che non avete spento dove si cuoceva la pasta ad esempio ), versate la salsa, buttateci sopra la pasta e mescolate bene, aiutatevi con qualche spaghetto o altro per pulire bene il pentolino, fatela saltare deve sfrigolare ma sempre mescolandola, se no si attacca. Questo passaggio richiede che la pasta sia stata scolata al dente.
Spegnere e servire gli spaghetti al pomodoro. Lo spaghetto al pomodoro dev'essere ricco di sugo, si devono vedere i baffi di sugo ai lati della bocca e alla fine si deve fare la scarpetta, se no che gusto c'è?

Detto per inciso, la pasta che mi entusiasma di più col sugo di pomodoro non sono tanto gli spaghetti, bensì le mafalde o reginette che dir si voglia.


Per finire con le provocazioni
Come vedete nella mia salsa non c'è traccia di cipolla. Si può certamente fare una salsa di pomodoro con cipolla ma non è tra le mie preferite. Mia madre, da brava nordica, usava addirittura il burro (oltre alla cipolla!).

Che le colpe delle madri non ricadano sui figli ;-)

lunedì 1 dicembre 2008

Homenaje a México: polvorones estilo Tlazolteotl

Sebbene recentemente mi sia già cimentato nei polvorones, ieri m'è venuta voglia di creare una variante e siccome mi sentivo assai patriottico, ho pensato ad una variante verdaderamente patriotica y mexicana.


Si prenda la ricetta dei polvorones tradicionales mexicanos e si modifichi come segue:
anziché 450g di farina tipo 0, si prendano 300g di farina tipo 0 e 150g di farina bramata di mais bianca (quella veneta per fare la polenta bianca), ma che dovrete macinare fina fina.
Anziché rhum, si usi tequila reposado.
Tutto il resto rimane come nella ricetta originale.

Usciranno dei polvorones sopraffini, che la presenza della farina di mais rende ancora più fragranti degli originali, con un messicanissimo sentore di tequila.

Il vero problema con i polvorones è smettere di mangiarli.
Siete avvisati.

domenica 30 novembre 2008

Gnocchi alla romana o almeno così credeva mia madre...

Quando mia madre preparava i gnocchi alla romana, per me era festa.
Non solo perché mi sono sempre piaciuti moltissimo, specialmente se ben abbrustoliti in forno, con quella deliziosa crosticina croccante, ma anche perché la fase del ritaglio era compito mio ed io prendevo la cosa molto seriamente.


La storia dei gnocchi alla romana è piuttosto controversa, tanto che si giunge a dubitare del fatto che i gnocchi a base di semolino siano i veri gnocchi alla romana. Insomma, sarà nata prima la versione con il semolino o con la patata? Ma soprattutto, cosa c'entrano l'una con l'altra, visto che in tutti i casi si parla di piatti diversi, conditi in maniera completamente differente?

Sia come sia, per mia madre i gnocchi alla romana erano questi qui e io, un po' per pigrizia, un po' non si sa perché, non li faccio così spesso come meriterebbero.
La prossima volta magari farò l'esperimento del pane grattugiato, così come riportato nella ricetta contenuta nel primo collegamento.

Ingredienti:
250g semolino
1 litro di latte
2 uova
75g di burro (circa)
noce moscata q.b.
sale q.b.
parmigiano reggiano grattugiato q.b.

Procedimento:
si inizia preparando la polentina di semolino, mettendo il latte con il sale e la noce moscata in una pentola idonea. Quando il latte comincia a bollire si versa lentamente a pioggia il semolino, mescolando continuamente per evitare la formazione di grumi. Dopo circa 5 minuti dovrebbe essersi formata una polenta piuttosto soda, spegnete e lasciate intiepidire. Approfittate di questa pausa per ungere la superficie di burro, così come le pirofile dove poi andranno sistemati i gnocchi. Quando l'impasto sarà tiepido, aggiungete 2 uova e due manciate di formaggio parmigiano e amalgamate il tutto per bene. A questo punto stendete l'impasto sulla superficie di lavoro fino ad ottenere una pastella dell'altezza di un dito.

Munitevi di uno stampino tondo e ricavate dei dischetti che poi sistemate pazientemente leggermente inclinati.

Spolverateli con altro formaggio e qualche ricciolo di burro e infornate per circa mezz'ora nel forno a 200 gradi.


Se la forma tonda vi dovesse venire a noia, potete anche usare formine più estrose, più sotto vedete che mi sono sbizzarrito ed ho perfino sfornato dei gnocchi alla messicana a forma di cactus...

Il passaggio nel forno trovo che sia assolutamente necessario, i gnocchi acquisiscono un sapore completamente diverso grazie alla gratinatura, al formaggio fuso e al burro.


Sono anche ottimi candidati per essere surgelati prima della cottura e tirati fuori quando si ha poco tempo a disposizione ma voglia di qualcosa di buono.

giovedì 27 novembre 2008

Spaghetti alle telline

Non sarà una ricetta particolarmente fantasiosa, ma è pur sempre un grande classico, come gli spaghetti alle vongole che hanno una preparazione quasi identica, eccezion fatta per il filtraggio del brodetto nel caso esca molta sabbia e mi risulta che qualcuno sia diventato quasi miliardario a furia di servire spaghetti alle vongole fatti come Dio comanda a Città del Messico.

Rispetto alla vongola, la tellina ha un sapore più delicato o così a me sembra.

Le telline mi ricordano l'infanzia, quando da bimbo molto fortunato i miei, a giugno, mi portavano al mare a Marina di Pietrasanta, località le Focette, grazie alla generosità di amici che ci prestavano una villa da cartolina.
Al "bagno Giovanni", che poi diventò molti anni dopo "90-simo minuto", passavo la giornata a costruire piste di sabbia per le biglie, quelle con le facce dei ciclisti, erano i tempi di Gimondi, di Zandegù, di Panizza, di Merckxx soprattutto, mica pizza e fichi... oppure a passeggiare tra la foce del Tamanaco e lido di Camaiore o a fare il bagno con qualche coetaneo o coetanea e chissà che fine avranno fatto Romy e sua sorella, due ragazzine fiorentine che stavano in affitto nell'appartamentino attaccato allo stabilimento balneare.
Se ci siete battete un colpo...

Vicino al bagno Giovanni c'era il bagno Onda e poi il bagno "Bussola", quello del mitico locale dove andavano a cantare Celentano, Mina, Little Tony, insomma, tutti i cantanti in voga tra gli anni '60 e '70. Invece negli hotel vicini si vedevano spesso i calciatori, mi ricordo di Facchetti alla pensione "Motta", quando un cono gelato costava 50 lire.

In qualche occasione speciale capitava di andare in un ristorante chiamato la Giunca, dove nonostante la tenera età mi "scofanavo" una discreta porzione di caciucco e quel caciucco mi è sempre rimasto impresso.


Alla sera i bagnini prendevano i rastrelli con i quali alla mattina andavano a raccogliere le telline e pulivano la spiaggia da cima a fondo ed erano cazziatoni se uno si azzardava a pestare la spiaggia appena tirata a lucido. Non so se ci sia ancora questa usanza in Versilia, sono troppi anni che non frequento più quei posti.

Ingredienti:
500g spaghetti n.5
500g telline fresche
4 spicchi d'aglio
1 mazzetto di prezzemolo
peperoncino rosso opz.
olio extravergine q.b.

Procedimento:
mettete sul fuoco l'acqua per gli spaghetti, ma vanno bene anche delle linguine, e quando bolle salatela. Nel frattempo preparate il trito di prezzemolo. Prima di buttare la pasta, prendete gli spicchi d'aglio e fateli abbrustolire in 5 cucchiai d'olio in una padella larga (vedi foto), aggiungendo anche del peperoncino se vi piace e a me, si sa, piace molto, anche se non lo metto su ogni cosa. Con questo genere di condimento il chile guajillo è fantastico. Quando l'aglio sarà ben dorato, buttate le telline e coprite. Buttate anche la pasta. Dopo qualche minuto verificate che le telline si siano aperte, a questo punto aggiungete un bicchiere di vino bianco secco di qualità. Chiudete il coperchio fate andare un altro minuto, massimo due e spegnete. Quasi in contemporanea dovrebbe essere pronta anche la pasta.


Scolare ben al dente e buttatela sopra le telline nella padellona e fatela saltare a fuoco vivo, aggiungendo il trito di prezzemolo e servire fumante.

lunedì 24 novembre 2008

I papasin

I papasín sono tra i dolcetti che più mi ricordano l'infanzia, quando capitava di passeggiare per il centro di Mantova con mia madre durante qualche domenica di tardo autunno o inverno.


In piazza delle erbe o nelle vicinanze era facile trovare un banchetto dove vendevano i dolci a base di farina di castagne e per qualche motivo i papasín hanno sempre colpito il mio immaginario, forse più della patóna (nome in dialetto mantovano del castagnaccio), che di solito ha una consistenza più tenera. L'altro grande classico di casa mia a base di farina di castagne sono le frittelle, ma questa è un'altra storia.
L'arte del papasín, se mai esiste, consiste nel farli della giusta consistenza, né troppo duri, né troppo molli. Ovviamente le versioni meno nobili non prevedevano né la presenza di uvetta, né di pinoli ed ovviamente ciascuno è libero di fare come crede.
Il principale difetto dei papasín sta nel fatto che uno tira l'altro e la farina di castagne non è esattamente "dietetica".

Ovviamente i papasín non sono una specialità mantovana in senso stretto, con lo stesso nome sono conosciuti anche a Verona (se non sbaglio), mentre qui a Modena non so come venissero identificati, ma ricordo che tanti anni fa c'era un negozietto vicino a Piazza Grande che li vendeva. Curiosamente ho trovato un blog di una simpatica rezdora bolognese (e speriamo che Ivana non si offenda se la chiamo rezdora) che chiama papazeen le frittelle di cui dicevo poc'anzi. La cosa non mi stupisce ed è tipico delle province confinanti chiamare con lo stesso nome cose diverse.

Ingredienti per 16 papasin:
500g di farina di castagne
4 cucchiai di zucchero di canna grezzo
acqua q.b. (circa 300ml)
1 manciata di pinoli
1 manciata di uvetta passa
1 pizzico di sale

Procedimento:
mettere a bagno l'uvetta in acqua tiepida, volendo aggiungete un po' di rhum al gusto e lasciate in ammollo una ventina di minuti.
Mescolare bene la farina di castagne con lo zucchero, aggiungere un pizzico di sale e cominciare ad aggiungere acqua fino ad ottenere un impasto piuttosto modellabile, come nella foto.



Aggiungere l'uvetta ammollata e i pinoli, quindi formare dei cilindri da sistemare sulla leccarda.



Infornare per una ventina di minuti a 180 gradi, finché non vedrete imbiancare leggermente l'esterno.



A me piace mangiarli freddi.

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