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domenica 22 gennaio 2012

Arepas asadas "bolivarianas"

Chissà perché pur avendo intenzione di farle da moltissimo tempo, la ricetta delle arepas è rimasta nel cassetto per svariati anni. Ma stiamo parlando di arepas venezuelane o colombiane?

arepas con queso y jamón
Domanda volutamente capziosa, perché se volete essere sicuri di creare i presupposti per una epica litigata tra colombiani e venezuelani, dovete proprio insinuare che i primi abbiano inventato las arepas prima degli altri o viceversa. E però si tratta di un litigio senza senso perché sicuramente le arepas esistevano da molto prima che Venezuela e Colombia fossero due stati indipendenti, anzi, da persino prima che l'America venisse scoperta. Tuttavia siccome la ricetta l'ho presa "in prestito" alla cuoca errante, la quale s'ispirò a un video dove mostrano la versione venezuelana dell'arepa, checché significhi, diciamo che queste siano arepas venezuelane, anche se fatte con la colombianissima Harina Pan di mais bianco. E così abbiamo accontentato anche il buon Simón Bolívar che tanto si spese per l'indipendenza e l'unificazione dell'America Latina.

E qui possiamo aprire anche una piccola parentesi messicana. Dato che la farina di mais bianco messicana, la masa harina, non è di facilissimo approvvigionamento o comunque non tanto facile come trovare la farina Pan, una cosa che spesso sento chiedere è se si possano fare le tortillas con quest'ultima. Mi duole rispondere che secondo me con la harina Pan non vengono delle buone tortillas di mais perché il mais non ha subito il trattamento necessario, la famosa nixtamalizzazione. La farina Pan assomiglia invece molto alla farina da polenta bianca, tant'è che quando avrete abbrustolito le arepas a dovere, vi sembrerà di mangiare qualcosa di molto somigliante alla polenta abbrustolita, mentre le tortillas fresche non assomigliano per nulla alla polenta.

Questa somiglianza con la polenta abbrustolita non va vista come un difetto, anzi, ci dice che le arepas si prestano per essere abbinate con successo a diversi condimenti, dal formaggio, agli stufati di carne, dal pesce in umido al prosciutto e infatti non è un caso che sia in Venezuela che in Colombia sostituiscano a tutti gli effetti il pane in una marea di preparazioni diverse.

Hanno anche il pregio di cuocersi abbastanza rapidamente, dato che sono a base di farina di mais precotto, per cui 10 o 15 minuti sulla piastra o sulla griglia sono sufficienti per preparare una cena diversa dal solito o perfino una colazione in stile sudamericano. Siccome ieri sera avevo acceso il camino, ne ho approfittato proprio per cuocerle sulla piastra, sul comal per dirla alla messicana, 8 per volta.

Ingredienti:
2 tazze di farina di mais precotto (harina Pan), 300g circa
2 tazze e 1/2 di acqua tiepida (circa mezzo litro)
una bella presa di sale

Procedimento:
fare le arepas è decisamente semplice, si versa la farina in una ciotola capiente, si aggiunge una bella presa di sale e poi acqua tiepida un po' alla volta, impastando con le mani, fino ad ottenere una massa consistente ma non dura, facilmente manipolabile. Con le dosi indicate ho ricavato 16 palline, grandi grosso modo come una palla da ping-pong o forse leggermente di più. Con il palmo della mano le si schiaccia fino a farle diventare di uno spessore di circa un dito, ma se avete le dita come quelle di un giocatore di pallacanestro americano, allora mezzo dito :-) Diciamo poco più di un centimetro, va.

arepas listas para asar
I dischi li sistemate sulla piastra calda, ma non incandescente, se no si bruciano, se la superficie non è antiaderente è bene ungerla, con del grasso di prosciutto ad esempio così le arepas non si attaccheranno.
asando arepas en la chimenea
Si cuociono 5-6 minuti per lato, ma dipende anche dalla temperatura della piastra, è meglio tenere la temperatura un po' più bassa se vedete che tendono a strinarsi in fretta. Saranno cotte quando avranno formato un crosticina sottile, proprio come quando si abbrustolisce la polenta.

Per questa volta ci siamo accontentati di imbottirle con mozzarella e prosciutto cotto, ma come dicevo all'inizio, se avete qualche intingolo o stufato dovreste provare anche con quello.
arepas con queso mozzarella
Le arepas ripiene di mozzarella sono un ricordo che mi porto della mia prima visita a New York.
Una domenica avevano organizzato una specie di mercato multietnico in alcune vie del "centro" e c'era una coppia italo-colombiana a sfornare deliziose mozarepas all'ombra dei grattacieli.
Se me le ricordo ancora dopo tanti anni, dovevano proprio essere buone.

mercoledì 6 aprile 2011

Costine di puledro alla "o la va o la spacca"

Con la ricetta di oggi, le costine di puledro alla "o la va o la spacca" altrimenti dette "alla come viene viene", voglio inaugurare una nuova categoria tra le molte che già affollano questo blog, quella delle ricette improbabili o difficilmente ripetibili, una specie di sublimazione dell'arte di riciclare gli avanzi di cucina spacciandoli per piatti lungamente ponderati.


Poi, pensandoci bene, non era la prima volta che presentavo una ricetta improbabile, così ho deciso di infilare anche la ricetta delle scorze di melanzana riciclate e ho già altre due o tre ricette che scalpitano per fregiarsi del titolo di ricetta improbabile (ma buonissima, eh!).

Non so come vada a casa vostra, ma a casa mia ogni tanto ci si ritrova con dei rimasugli e siccome solitamente sono troppo poco per farci una porzione singola o troppo per finirli da soli, capita che tocchi inventarsi una maniera più o meno raffinata di smerciarli, possibilmente cavandoci qualcosa di buono o di commestibile se non altro.
Il guaio è proprio quando esce un piatto succulento ma difficilmente ripetibile, come in questo caso :-)

E dopo chi ce la fa a rifarlo uguale se è la mescolanza di due o tre combinazioni cosmiche?

Ad esempio, la ricetta di oggi è nata casualmente a seguito di alcune "fortunate" circostanze, tipo quella di aver dimenticato in frigo delle costine di puledro comprate diversi giorni prima, aver trovato un peperone sepolto in un cassetto, un fondo di bottiglia di vino bianco malvasia rimasta dopo una cena con amici e il voler eliminare a tutti i costi un avanzo di carciofi alla romana non abbastanza alla romana, anche se di bell'aspetto.

Questo per dire che più che darvi una ricetta, oggi vi propongo un'idea, da aggiustare come vi pare, in base a quello che vi è rimasto in frigo e rigorosamente senza acquistare gli ingredienti apposta.

Ingredienti:
1Kg di costine di puledro (o di maiale o anche agnello)
1 peperone verde
1 cipolla grossa
1 carota grossa
1 bicchiere di vino bianco malvasia
avanzo di carciofi alla romana e relativo intingolo
2 cucchiai d'olio extravergine
1 foglia di alloro
1 rametto di timo fresco
1 rametto di maggiorana fresca
5-6 grani di pepe nero
sale q.b.
acqua q.b.


Procedimento:
nella pentola in cui si effettuerà la cottura, soffriggete il trito di cipolla e carota per qualche minuto, poi rimuovete il soffritto e tenetelo da parte. Fate rosolare la carne nella stessa pentola con due cucchiai d'olio (mica vogliamo sprecare le pentole per cucinare degli avanzi!) a fuoco medio finché non sarà ben dorata su tutti i lati. Unite nuovamente il soffritto e aggiungete il vino, poi coprite la carne con acqua tiepida.
Successivamente aggiungete anche le spezie e proseguite la cottura, che sarà piuttosto lunga, a fuoco bassissimo e con coperchio. Dopo un'ora aggiungete il peperone, arrostito sulla fiamma e sbucciato (così come si fa con i chiles messicani), tagliato a cubetti o a strisce.
Quando la carne sarà tenera, dopo circa 2 ore e mezza dall'inizio, spegnete e aggiungete i carciofi eventualmente smembrati assieme al loro condimento, mescolate bene e servite.

Insomma, di questo non ne è avanzato da dover nuovamente riciclare :-D

mercoledì 27 ottobre 2010

Il camino ritrovato

Per quindici anni, forse anche venti, il camino di casa mia è stato dichiarato chiuso.
Mia madre, che quando si metteva in testa una cosa, era impossibile convincerla del contrario, sosteneva che dal camino scendeva aria fredda quando era spento e decise di chiuderlo.


O almeno così tutti ci ricordavamo avesse detto.
Vuoi perché nessuno ha mai indagato bene su cosa avesse fatto veramente per chiuderlo, vuoi perché con il passare degli anni le leggende si gonfiano fino a diventare mezze verità, non ci si sognava nemmeno di accenderlo proprio perché tutti ormai sapevano che era definitivamente chiuso, una reliquia di un passato lontano, un elemento d'arredo spento per sempre, come certi maestosi vulcani messicani.

Anzi, questo povero camino ultimamente sembrava diventato una specie di ripostiglio di riserva, dove s'erano accumulate vecchie videocassette e giocattoli caduti in disuso. Una fine decisamente ingloriosa per un bel caminetto.

Finché qualche giorno fa, anche per dar soddisfazione all'erede, che adora i camini, dopo aver fatto un repulisti generale di tutte le cianfrusaglie affastellate davanti, armato di guantoni, occhiali e torcia elettrica, mi sono infilato come una salsiccia dentro alla cappa per cercare di capire come fosse stato chiuso e non c'è voluto molto a scoprire che in realtà mia madre aveva solo chiuso una specie di sportello a farfalla. È bastata una tirata e zacchete, lo sportello s'è spalancato, lasciando cadere il suo annoso carico di polvere e cenere sulla mia pelata inutilmente spaziosa.

A quel punto mancava solo un po' di legna per verificare se il caro vecchio camino funzionasse ancora bene come mi ricordavo, ma con l'aiuto dell'erede e un pallet in disuso, ci siamo tolti ogni dubbio.

E così, dopo diversi lustri, il camino è tornato in funzione, per la gioia di grandi e piccini.
Esiste qualcosa di più rilassante che leggere un libro davanti al camino?
O anche solo mettersi davanti al focolare a pensare a niente e ad ascoltare il crepitio delle braci?
La sensazione di tranquillità che dona un fuoco acceso dev'essere qualcosa che ci portiamo dietro dalla notte dei tempi.

Che poi non è obbligatorio stare davanti al camino a non far nulla, potete sempre prendere una padella coi buchi e cuocerci le caldarroste o le bruciate, come le chiamano in certi posti.
O perfino i terrificanti marshmallows, per farli caramellare.
O magari le croste del parmigiano-reggiano, anche se poi l'odore vi costringerà a ventilare l'ambiente, ma quanto sono buone!
Oppure, con l'aiuto di un bel comal, si possono cuocere le tortillas come una volta.
O anche solo giocare a carte con gli amici sorseggiando un bicchierino.

Ma soprattutto una casa che profuma di camino mi sembra più accogliente e più viva.

lunedì 11 ottobre 2010

Risotto filante alla zucca

Se c'è un piatto sinonimo di cucina italiana, per me questo è il risotto. Oggi, anzi, due giorni fa :-) feci questo risotto filante alla zucca.

Sì perché quando andate all'estero troverete la pasta in tutti i ristoranti italiani e pseudo-italiani, ma di risotti non ne troverete quasi mai, a meno di andare in ristoranti di lusso o semi-lusso.
Il risotto, pur non essendo certo un piatto di lusso nella maggior parte delle declinazioni, richiede attenzione, non è come la pasta che si butta in acqua e quasi ci si può scordare di lei fino all'ora di scolarla, salvo una saltuaria rigirata. Il risotto va curato, bisogna stare lì a muoverlo, a tenerlo d'occhio e poi non si presta molto per essere condito con salse all'ultimo momento, la salsa viene creata assieme al riso, senza facili scorciatoie e riscaldamenti al forno a microonde.
Credo che questa sia la fondamentale ragione per cui se nel menù del ristorante ci sono i risotti, si può quasi star sicuri che la cucina dev'essere ben presidiata!
Oddio, può anche capitare di mangiare pessimi risotti, con il riso scotto o troppo unto (per non dire bisunto) o troppo crudo, oppure fatti con il riso parboiled (orrore!), ma, incidenti a parte, se vi propongono dei risotti, dovrebbero saperli fare.
Dicevo dunque del mio risotto filante, filante perché il formaggio utilizzato, tipo malga gardena o piave o asiago, quindi semigrasso, tende un po' a filare, anche se certamente non come una mozzarella. Serve un formaggio dal sapore delicato, non troppo intenso, se no sparisce la zucca, specie se non è di qualità eccelsa.

Ho usato zucca al forno perché questo è il periodo delle zucche e a Modena è tradizione mangiare la zucca cotta al forno. Qua si usano soprattutto le zucche arancioni bislunghe, non quelle tonde, le mantovane, piacentine o veronesi che dir si voglia. Mia madre, mantovana, le disprezzava abbastanza, diceva che erano tutta acqua perché "le fnis in gnint". In effetti non sono zucche da tortelli mantovani, per quelli servono zucche sode, ma queste messe al forno, se son dolci non son malvagie e si possono usare benissimo per queste preparazioni.


Ingredienti:
400g riso carnaroli o vialone nano
200g di zucca cotta al forno
50g di formaggio d'alpeggio (malga gardena, asiago, piave...)
20g di burro
2 ciuffi di rosmarino
mezzo bicchiere di vino bianco secco
mezza cipolla
acqua q.b. oppure brodo (circa mezzo litro)

Procedimento:
in una pentola adatta per i risotti (di acciaio o ancora meglio di rame) soffriggete la cipolla e il rosmarino con il burro per qualche minuto, finché non diventa trasparente, poi aggiungete il riso e fatelo tostare per bene, muovendolo in continuazione per diversi minuti.
Quando alcuni chicchi (non tutti!) avranno assunto un colore leggermente rosato, versate il vino bianco che evaporerà quasi subito, poi coprite con l'acqua o il brodo (possibilmente già bollenti).
Mescolate di tanto in tanto e dopo una decina di minuti aggiungete la zucca cotta ben tritata.


Aggiungete acqua se necessario, poco alla volta. Quando il riso è ancora ben al dente, aggiungete il formaggio tagliato a dadini piccoli, mescolate, spegnete e coprite per qualche minuto a fuoco spento prima di servire.

sabato 5 giugno 2010

Dicesi pollo tikka masala...

Quando seppi che il pollo tikka masala era in realtà una ricetta di cucina indiana contemporanea, peraltro di assai recente invenzione, per qualche strano motivo rimasi perplesso.


Ma come, una ricetta indiana così succulenta che oltretutto non è nemmeno stata inventata in India?!?
Eh già, perché il chicken tikka masala a quanto pare è un'invenzione di un cuoco indiano residente in Scozia. Come se non bastasse, i sostenitori della cucina britannica hanno giustamente deciso che, essendo nata lì, va considerata a tutti gli effetti una ricetta inglese e pare ne vadano giustamente orgogliosi.

In effetti la ricetta ha avuto un tale successo che è stata "importata" persino in India perché chiaramente il turista arriva là convinto di trovare il pollo tikka masala e nessuno se la sente di consigliare una gita a Glasgow piuttosto.

Sia come sia, a me il tikka masala piace molto e l'ultima volta m'è capitato di mangiarlo in un ristorantino pachistano di Berkeley, assieme ad un naan all'aglio. Insomma questo pollo tikka masala rischia di diventare come i famosi spaghetti bolognaise, che esistono dappertutto fuor che in Italia...

Ovviamente quando le ricette hanno tanto successo, le variazioni diventano talmente numerose che diventa difficile ricostruire la versione originale e dando uno sguardo su internet ci si rende presto conto che non ne esistono due identiche.
Questo sarà perciò il mio modesto contributo alla moltiplicazione delle versioni di tikka masala, pur rimanendo fedele ai profumi della cucina indiana e senza speciali concessioni al palato italico. Anzi, avendo pure della salsa di chile guajillo avanzata, ho pensato bene di infilarci anche un po' di quella.
Un tikka masala alla messicana, via.

Ingredienti per la marinatura:
1kg di petto di pollo
200g di yogurt tipo greco
un cucchiaino di paprika
un cucchiaino di cumino macinato
un cucchiaino di peperoncino macinato
un cucchiaino di pepe nero macinato
un cucchiaino di cannella macinata
un cucchiaino di zenzero macinato
mezzo cucchiaino di curcuma
il succo di un lime
sale q.b.

per la salsa:
1 scatola da 400g di pomodori pelati
250ml di panna fresca
3 spicchi d'aglio
3 cucchiai colmi di zucchero di canna
3 cucchiai colmi di mandorle pelate e macinate
2 cucchiai di olio di girasole o 20g di burro
2 bacche di cardamomo
1 cipolla bianca grande
1 cucchiaino colmo di garam masala
1 cucchiaino colmo di zenzero macinato
1 o 2 peperoncini rossi secchi
sale q.b.

per accompagnare:
500g riso basmati
un cucchiaio di semi di cumino

Procedimento:
si inizia ovviamente con la marinatura del pollo, che volendo può durare anche un paio di giorni, se non avete fretta, altrimenti basta qualche ora. Si mescola lo yogurt con le varie spezie, il succo di lime, il sale e poi si spalma sui pezzetti di pollo infilati su spiedini di bambù. Si mette il tutto in un contenitore chiuso in frigo, fino al momento di cuocere.
Terminata la marinatura, si prendono gli spiedini e si cuociono o nel grill o volendo anche sul barbecue, per circa 40 minuti. La cottura nel grill elettrico è indubbiamente più comoda perché richiede meno attenzione rispetto al barbecue, così si può approfittarne per preparare la salsa.
Dato che in questa occasione non avevo intenzione di preparare anche il naan, ho deciso di accompagnare il pollo con semplice riso, anche perché la salsa si presta molto a questa combinazione. Per preparare il riso si agisce nel modo consueto, lavando bene il riso, lasciandolo a bagno per circa 30 minuti in acqua fredda. Nel mentre si porta a ebollizione l'acqua con sale, per averla pronta al momento di cuocere il riso.
Infine ci si dedica alla salsa. Si taglia la cipolla a fette sottili e si frigge assieme all'aglio in una pentola in grado di contenere poi anche gli spiedini di pollo. Potete usare olio o burro o il famoso ghee. Quando la cipolla sarà diventata morbida, si unisce lo zenzero e il garam masala e si mescola per un minuto a fuoco basso. Se avete zenzero fresco usate un paio di centimetri di quello al posto dello zenzero macinato e potete pestarlo assieme all'aglio per ottenere la famosa ginger-garlic paste, cioé la pasta di aglio e zenzero. Aggiungete poi i pomodori pelati assieme a 100ml di acqua, allo zucchero di canna e poi le mandorle macinate. Aggiungere anche il peperoncino secco sbriciolato se volete una salsa più o meno piccante. Salare leggermente, si è sempre in tempo ad aggiungerne alla fine. Dopo circa dieci minuti conviene frullare il tutto e questa operazione si compie in modo facilissimo con un bel mixer a immersione. Si otterrà una salsa densa che verrà allungata con la panna fresca. A questo punto conviene estrarre gli spiedini di pollo che ormai dovrebbero essere cotti e immergerli nella salsa per altri dieci minuti assieme a qualche bacca intera di cardamomo.


Se la salsa è molto densa, potete allungare leggermente con acqua.
Approfittate degli ultimi dieci minuti per cuocere il riso, aggiungendo una manciata di semi di cumino nell'acqua. Controllate di aver salato l'acqua.
Il riso basmati si cuoce in circa 10-12 minuti, è importante che sia ben sgranato e non si spappoli.

sabato 21 novembre 2009

I cotechini di Fava ovvero la Ferrari dei cotechini

Nonostante il cotechino assieme al cugino zampone siano diventati una classica pietanza da cenone di San Silvestro, quando mi capita per le mani un signor cotechino di Mastro Fava da Castelletto Borgo (Mn), già salumiere di fiducia fin dai tempi dei miei nonni materni, ormai oltre quaranta anni fa, non ci sono santi e capodanni che tengano, finisce cotto al vapore alla prima ghiotta occasione con un pigiamino di fagioli o lenticchie a corredo.

Questo lussureggiante esemplare mi era stato regalato da mia zia, assieme a quattro salamelle che avevo già giustiziato alla solita maniera, cioè nel rís e salamele. Sono già vari anni che non vedo il sig. Fava di persona, ma per fortuna i miei zii tengono ancora i contatti e ogni tanto mi elargiscono questi meravigliosi doni.
Ricordo però molto bene la sua bottega e il profumo della stanza di stagionatura dei salami, per non parlare della sua celebre pancetta arrotolata, un'esperienza quasi mistica. Temo che in mancanza di un navigatore GPS ora non riuscirei manco ad arrivare a Castelletto Borgo, perché il progresso, come si suol dire, s'è mangiato le vecchie strade di campagna per lasciare posto a questi bei capannoni prefabbricati di color grigio fumo, alle tangenziali e alle villette a schiera.

Senonché questa volta la ghiotta occasione s'è presentata inaspettatamente quando mia moglie, di soppiatto, l'ha tagliato, pensando fosse uno dei celebri salami del mastro salumiere mantovano, per farlo assaggiare ad un ospite. Immaginatevi che vi stappino la bottiglia di vino prestigioso per farci del ragù, stavo per svenire quando ho visto il prezioso insaccato trafitto dalla proditoria lama d'acciaio.

Ma non posso farle una colpa, la passione per i salumi è una cosa decisamente europea, Argentina a parte. Nella cucina messicana i salumi, genericamente detti embutidos, sono per lo più costituiti dalla famiglia dei chorizos, una chiara eredità spagnola. Non che i messicani non conoscano prosciutti e salami, il jamón serrano spagnolo è ben noto ed esistono perfino finte marche italiane che spacciano improbabili prosciutti cotti di Parma, ma diciamo che, sia per questioni economiche, sia gastronomiche, il messicano medio vive benissimo senza la compagnia di prosciutti, salami e mortadelle.

Ora, in base a cosa dichiaro che questo particolare cotechino è la Ferrari dei cotechini?
Contrariamente a quel che si può pensare, cioè che si tratti della semplice opinione di un parvenu della gastronomia, oso affermare che esistono degli incontrovertibili criteri empirici per giudicare la bontà di un cotechino, che vado ad elencare:

  1. Un buon cotechino, emana un odore gradevole anche prima di essere cotto.
  2. Durante la cottura non appesta la cucina con un odore simile a quello che sentite arrivando al casello di Modena Sud provenendo da Bologna.
  3. Il sapore è gradevole, ben bilanciato, non ha punte aspre, ma soprattutto non è maialesco.
  4. Non incontrate parti dure o immasticabili.
  5. Tre quattro ore dopo l'avrete digerito senza problemi e senza l'aiutino dell'alka seltzer.

Inutile dire che questo soddisfaceva ampiamente tutti questi criteri per unanime decisione di tutti i commensali.
Perciò standing ovation per il Mastro salumiere Fava e i suoi venerabili 80 anni e passa, speriamo di poterne gustare ancora molti di cotechini così!

martedì 22 settembre 2009

Pasta cacio e pepe

L'apparente semplicità di certe ricette non significa affatto che siano banali.
Ad esempio, la famosa pasta cacio e pepe, il non plus ultra della semplicità apparentemente, appartiene a questo tipo di preparazioni, in cui fondamentalmente tutto dipende dalla bontà degli ingredienti e dalla cura dei pochi particolari.

Per chi non è di Roma, e sono tanti, l'uso di un formaggio diverso dal vero pecorino romano può sembrare lecito, anzi, quasi una miglioria sotto certi punti di vista, il che non può che suscitare l'orrore dei romani de Roma. Qualche giorno fa infatti ho scambiato qualche opinione in merito con le mie forumiste preferite e quasi venivamo alle mani... :-D Mi sono azzardato a dire che avevo preparato cacio e pepe con del pecorino di grotta!

Dato che nonostante tutto, l'approccio scientifico-gastronomico è ancora il metodo prediletto per dirimere certe questioni, come appunto stabilire se il pecorino romano sia l'unico formaggio consentito nella preparazione della pasta cacio e pepe, sabato ho comprato apposta del pecorino romano da destinare all'esperimento.

In realtà i romani non hanno torto a difendere la ricetta tradizionale dagli assalti dei padani muniti di parmigiano reggiano, non perché il parmigiano non sia buono, ma semplicemente perché il sapore è proprio diverso.

Il pecorino romano, contraddistinto da una salatura piuttosto spiccata rispetto ad altri tipi di pecorino, una volta fuso dall'acqua di cottura della pasta, crea una salsa più saporita rispetto agli altri tipi di pecorino.

Sul fatto poi di usare l'escamotage di travasare l'acqua di cottura sul pecorino grattugiato anziché fare il contrario, potremmo duellare a lungo senza pervenire ad alcun accordo. Io faccio così perché è molto più facile calibrare la quantità d'acqua che non andando a occhio, ma l'oste romano che prepara cacio e pepe da venti generazione sicuramente scuoterà il capo: Tlazzò, ma che stai a fà, 'a ricotta?

Ingredienti x 4:
400g pasta
100g di pecorino romano
pepe nero da macinare al momento, al gusto

Procedimento:
il bello della pasta cacio e pepe è proprio nell'essere tanto buona quanto rapida da preparare.
Mentre la pasta bolle, si grattugia il formaggio, si versa in un pentolino e quando la pasta è cotta, ma ben al dente, si pigliano due o tre cucchiaiate di acqua di cottura e si versano nel pentolino del formaggio, mescolando per ottenere una salsina con la consistenza dello yogurt. Si scola la pasta, si versa nella pentola, si aggiunge la salsa, una abbondante macinata di pepe nero fatta al momento ed ecco pronto un primo da leccarsi i baffi.

La quantità di pepe nero va a gusti, c'è chi ne mette tanto, chi meno, provate e decidete come più vi aggrada.
L'importante è usare pepe in grani macinato lì per lì, non quello svanito.
Il mio istinto mi dice anche che avendo del tartufo nero a disposizione al posto del pepe verrebbe fuori un'altra ricetta succulenta, ma di questo magari ne parleremo a tempo debito.

martedì 15 settembre 2009

Treccine salate della tradizione modenese

Benché i grissini non siano certo una invenzione modenese, le treccine salate, che qui si hanno sempre chiamato salatini, sono sicuramente una specialità da forno locale.

Ricordo benissimo quando mia madre mi portava a comprare il pane in un forno piuttosto distante da casa nostra, praticamente dall'altra parte del centro cittadino e a me, che allora dovevo avere 4-5 anni, sembrava una traversata epica. Lì mi comprava sempre le treccine salate e sosteneva che quelle erano le migliori della città. Non so in base a quali prove sostenesse questa tesi, ma io, con un'ottima treccina salata in bocca, non mi mettevo certo ad obiettare.

A distanza di quasi quarant'anni, ogni tanto, ne compro un etto se li scorgo veramente invitanti, ma devo dire che in parecchi forni hanno un aspetto un po' triste, come se venissero preparati più per dovere che per sincera passione e in quel caso, mi passa la voglia di provarli.
Il salatino sfizioso infatti deve avere un aspetto bello a vedersi, con i suoi granelli di sale luccicanti e la superficie rugosa, non liscia come certe chiappe levigate con Photoshop, diciamo che deve avere un po' di cellulite, cosa perfettamente normale visto che sono impastati con il diabolico strutto.

L'altro giorno, in preda ad un'euforia creativa, mi son detto: "ma perché non provare a farli, non devono essere poi così difficili!". E in effetti questo primo tentativo è riuscito decisamente bene, almeno per i miei gusti.
E dato che sto attraversando questa fase di innamoramento per i sali stravaganti, ho pensato bene di usare quelli al posto del sale grosso convenzionale.

Ingredienti:
360g farina tipo 0
150ml acqua
120g strutto
12g di lievito di birra fresco
un cucchiaino di zucchero
sale q.b.

Procedimento:
sciogliere il lievito con un cucchiaino di zucchero e lasciarlo riposare finché non comincia a fare schiuma. Nel frattempo tirare fuori lo strutto dal frigo per portarlo a temperatura ambiente.
Impastare poi tutti gli ingredienti, fino ad ottenere un impasto molto morbido, leggermente attaccaticcio che poi farete lievitare ben coperto fino al raddoppio di volume.

Terminata la lievitazione, ricavate delle porzioncine di pasta dello stesso peso, grosso modo.
Nella foto qui sopra vedete l'impasto suddiviso in 22 porzioni, per nulla uguali tra loro :-)
Dato che era la prima volta che li facevo non sapevo bene se e quanto si sarebbero gonfiati e se venivano meglio grossi o sottili. A posteriori la mia preferenza va a quelli sottili, per cui vi consiglierei di fare almeno una trentina di porzioni che poi userete a due a due.

Su un piano di lavoro tirate ciascuna porzione di impasto facendola rotolare sotto il palmo della mano, deve uscire una specie di stringa lunga una trentina di centimetri o comunque non di piú della dimensione della leccarda.

Con due stringhe fate la treccia e la cospargete con i granelli di sale grosso o fino, a seconda dei gusti. Approfittatene per accendere il forno sui 160 gradi prima di iniziare questa operazione, così quando terminate il forno sarà già pronto.

Le ho cotte per 20 minuti a 160 gradi e poi, vedendo che rimanevano un po' chiare, per altri 20 minuti a 180 gradi. Poi ho spento il forno e le ho lasciate dentro.
Le treccine devono essere croccanti e friabili, non morbide.
Queste mi sono sembrate una goduria.

martedì 8 settembre 2009

Cum grano salis - il piacere del sale

Sì lo so, è demenziale, però cosa volete farci, a me i sali strani mi eccitano la fantasia.
Se lo viene a sapere Beppe Grillo, mi fucila come nemico pubblico dell'ambiente e dell'umanità. Mi ricordo una sua battuta feroce sul fatto che agli americani piacessero i biscotti danesi al burro e ai danesi i biscotti americani al burro d'arachide, con grande spreco di gas serra per portare avanti e indietro 'ste scatole di biscotti: ma perché non si scambiano semplicemente la ricetta?



Immaginarsi quindi un demente che incoraggia lo scambio di sale tra continenti!
Come minimo rischio la fucilazione alla schiena.

In effetti anche io una volta credevo che il sale fosse semplicemente... sale, a qualunque latitudine e longitudine, figuriamoci, girala come vuoi ma alla fine sempre di cristalli di cloruro di sodio (NaCl) si parla.
Poi, un giorno, arrivò Laura a scatenare la mania per i sali del mondo, dei quali, nonostante la sceneggiata, rimango tuttora fondamentalmente ignorante, ad eccezione di pochi esemplari rastrellati di qua e di là.

Ma che ci troverò mai di tanto interessante nel sale?

Il sale grezzo può contenere impurità che dipendono dal particolare luogo di raccolta, residui di sostanze diverse dal cloruro di sodio, come ad esempio il cloruro di potassio che può conferire una sfumatura amarognola oppure venire appositamente trattato per assumere un certo colore, come nel caso di questi sali colorati delle Hawaii, il black lava dal colore nero veramente drammatico a causa della mescolanza con il carbone vegetale, il sale verde aromatizzato alle foglie di bamboo o il sale rosso all'argilla di Aloha. I sali hawaiani presentano tracce di magnesio, potassio, calcio e zolfo e nel caso di quello rosso, ferro.



Nel caso del sale rosa dell'Himalaya invece il colore è completamente naturale ed è dovuto alla presenza di impurità costituite da ferro, magnesio, potassio e calcio. Il sale dell'Himalaya è un sale fossile, residuo marino risalente a 200 milioni di anni fa. Voglio proprio vedere se i NAS troveranno da ridire sulla data di scadenza...
C'è anche un bel film che vi consiglio, intitolato proprio Himalaya, incentrato sulle vicissitudini dei raccoglitori di sale di quelle remote lande, apprezzerete ancora di più questo straordinario prodotto dopo avere visto l'epopea cinematografica del popolo del Dolpo.



Il sale blu di Persia è un altro sale fossile, la cui colorazione è dovuta alla presenza di silvinite o silvite. Niente paura, il premier non c'entra nulla con questo sale millenario, anche se forse, continuando a raccontare balle, rischia di trasformarsi in una statua di sale come la moglie di Lot...



Tra i grandi produttori di sali strani ci sono perfino i mitici Vichinghi. Abbandonati gli elmetti con le corna e le scuri, rimangono questi fiocchi di sale affumicato in cui, oltre al sale, ci sono residui della affumicatura a base di legno di quercia e olmo rosso.

Ora, tutte robe belle da vedere, ma lo scettico si chiede: e il sapore? e l'odore?

Nel caso dei sali naturali fossili, l'odore è inavvertibile. Con molta buona volontà forse si riesce a percepire qualcosa a livello gustativo a causa degli oligominerali, ma bisogna veramente assaporare i cristalli con un cibo neutro che favorisca l'operazione. Non a caso avevo provato tempo fa con le ricottine alla piastra, che di per sé sono abbastanza insipide e quindi si prestano abbastanza bene per questo genere di esperimento.

Nel caso dei fiocchi di sale vichingo invece, il profumo è veramente sublime. Ottimo anche quello del sale verde alle foglie di bambù. Il sale nero è praticamente insapore, quello rosso ha qualcosa di indefinibile (speriamo di riuscire a definirlo prima o poi...) ma ovviamente si prestano per gli effetti speciali in cucina o nella preparazione di cocktail, volete mettere un margarita con il sale nero sul bordo del bicchiere o una focaccia all'olio picchiettata di sali multicolore?

La raccolta di sali è appena agli inizi, già fremo all'idea di procurarmi qualche altro sale strano, quello rosa australiano del Murray River, quello grigio della bretagna, il sale di Guerande con il quale si preparano biscotti favolosi e chissà quanti altri ancora.

E il sale di tutti i giorni?
L'ottimo sale marino della riserva di Trapani o il "sale dei Papi" di Cervia.
Ho detto dei Papi, non "di papi".

sabato 7 marzo 2009

Mixiotes de ternera

E venne il giorno dei mixiotes.
In realtà era da un po' che ruminavo questa ricetta, vuoi perché prima volevo fare delle foto migliori, vuoi perché poi non le ho fatte e queste fanno schifo, vuoi perché dovevo trovare l'ispirazione, vuoi perché il tempo vola, insomma, ormai è quasi ora di rifare i mixiotes perché è da tanto tempo che non li mangio!

Ricordo molto bene la prima volta in cui assaggiai questo piatto delizioso, da mangiare ovviamente con accompagnamento di tortilla, per farci tacos de mixiote.

Mia moglie doveva suonare ad un matrimonio e spesso i matrimoni "da soldi" in Messico si festeggiano in haciendas convertite in alberghi di extralusso.
Tenete presente che un hotel di extralusso in Messico costa come uno scarso in Italia, quindi passare un fine settimana in uno di questi luoghi è tuttaltro che proibitivo se provvisti di euro.

Dicesi hacienda l'equivalente di una grande azienda agricola nostrana, generalmente però le haciendas messicane sono molto più antiche, più belle architettonicamente e botanicamente perché il Messico è il Messico e non c'è paragone.
Punto e capo.

Insomma, mia moglie doveva suonare nella famosa Hacienda de Cocoyoc, il che a me non diceva assolutamente nulla, perché non ne avevo mai visto una sino ad allora.
Dato che arrivammo con discreto anticipo ed era ampiamente ora di pranzo (un orario che in Messico varia dalle 9 di mattina alle 4 di pomeriggio...), ci infilammo in una specie di ristorantino alla buona non distante dall'ingresso della hacienda e qui, leggendo il menù, mi incuriosii di fronte a questo nome che evocava indubbiamente qualcosa di azteco.
Fatto sta che trattandosi di un posto assolutamente genuino, con tutta probabilità i mixiotes li facevano al momento, forse tirando il collo al pollo al momento dell'ordine e quindi dopo un'ora ancora non s'era visto nulla e ormai mia moglie doveva andare a suonare e c'era venuta una fame orba per giunta!
Per farla breve, alla fine arrivarono i mixiotes de pollo e ci toccò di mangiarli in fretta e furia senza neanche poterceli gustare in santa pace, però mi parvero buonissimi.
Dopo di che non li ho mai più mangiati, perché non sono un piatto che si trova facilmente nel menu di tutti i ristoranti.
Comunque, se vi è venuta la curiosità di vedere com'è la hacienda de Cocoyoc, oltre al sito ufficiale, vi consiglio anche questa bella galleria fotografica, così capirete di cosa parlo.

L'attento lettore si sarà accorto giunto a questo punto che non ho ancora spiegato che diamine significhi mixiote.
Il mixiote è una specie di tessuto fibroso praticamente impermeabile che si trova all'interno delle foglie di agave. Da questo tessuto si ricava un sacchetto dentro al quale si fa cuocere la carne condita con verdure e, trovandole, ma qui non c'è speranza, rajas de nopal, che sarebbe a dire striscioline di cactus. Ebbene sì, voi non lo sapevate ma in Messico il cactus se magna!
Ed è pure un cibo molto sano.
Quindi il mixiote sarebbe più che altro il sacello dentro al quale si prepara la carne, ma per metonimia è diventato il vero protagonista della ricetta.
A dire il vero in molti posti hanno sostituito gli autentici mixiotes con più banali involucri di alluminio.
Io, invece, noblesse oblige, volendo almeno dare una parvenza di serietà alla cosa, mi sono messo a cercare certi sacchetti speciali per cottura a bagnomaria e sono perfino riuscito a trovarli al super. Del resto ci sarebbero volute pure le foglie di avocado, ma non avendo animo di andare a rapinare due foglie di avocado al giardino botanico, ammesso che ci fosse un avocado, ho lasciato perdere.

Ma che carne usare per fare i mixiotes?
Io, come dice il titolo, ho usato ternera, cioè vitello. Con ciò ho ottenuto soprattutto di allungare a dismisura i tempi di cottura a bagnomaria, circa 3 ore, al fine di ottenere una carne morbida anziché di gomma. I mixiotes però si possono preparare anche con pollo con l'indubbio vantaggio di cuocersi molto più rapidamente.

E adesso bando alle ciance. La ricetta è fondamentalmente quella descritta da Karen Hursch Graber nel suo inestimabile sito.


Ingredienti:
800g di carne di vitello (ho usato lo spinaccino)
60g di pasta di achiote
4 spicchi d'aglio
200g di pomodori pelati
4 chiles guajillo (dosi da interpretare secondo la dimensione dei peperoncini e il gusto)
4 chiles anchos
3 carote medie
una cipolla media
un'arancia spremuta
un limone spremuto
sei foglie di avocado (ve l'ho detto per dovere di cronaca, tanto non si trovano)
origano al gusto
timo al gusto
maggiorana al gusto
pepe nero q.b.
sale q.b.

Procedimento:
preparare i mixiotes è piuttosto semplice. Si spremono l'arancia e il limone e vi si scioglie dentro la pasta di achiote, si aggiungono un pizzico di origano, timo, maggiorana e una macinata di pepe. Si taglia la carne a pezzi grossi e si mette a marinare nella salsa di achiote, mentre si prepara il resto. Prendere i peperoncini, aprirli e togliere i semi, poi metterli in acqua bollente per qualche minuto e spegnere. Lasciarli in ammollo coperti per circa venti minuti. Se vi viene da sternutire è colpa del peperoncino, non vi preoccupate. Tagliare la cipolla a pezzetti e quando i peperoncini saranno ben ammorbiditi, frullarli assieme alla cipolla e ai pomodori pelati. Rimettere sul fuoco questa salsa per una decina di minuti, salare e nel mentre preparate la pentola per la cottura a bagno maria. Affettate anche le carote a rondelle.
Prendete sei sacchetti e riempiteli con la carne marinata e la salsa di peperoncini, mescolando bene, aggiungendo infine la carota. Chiudere i sacchetti e mettere a cuocere per circa 3 ore.
Se al posto del vitello usate pollo basterà un'ora.

lunedì 2 marzo 2009

Quer pasticciaccio brutto de via... Nonantolana

Chi abita da queste parti sa che la Nonantolana è la strada statale che porta da Modena a Ferrara o viceversa, passando appunto per l'antico paese di Nonantola, di cui potete vedere alcune foto sul blog di Ivana, la cui abbazia, ai tempi di Matilde di Canossa, era di primaria importanza.


Su questa strada tra il '500 e il '700 i duchi Estensi se la davano a gambe quando le truppe nemiche d'un certo peso s'avvicinavano a Modena e lasciavano le "chiavi di casa" in mano a qualche fiduciario come i nobili Rangoni ad esempio e da questa innata bellicosità della corte Estense nacque il pragmatico detto popolare "O Franza o Spagna, basta c'as magna!".
Quando le acque si calmavano, gli Estensi tornavano in città ripercorrendo la via nonantolana in senso contrario e si facevano raccontare dai Rangoni com'era andato l'assedio.

Questa premessa pseudostoriografica era necessaria per spiegare lo stravolgimento del titolo di un famoso libro di Carlo Emilio Gadda, che ho preso a prestito per illustrare i miei "successi" gastronomici di ieri, giorno in cui mi ero finalmente risoluto a preparare il prelibatissimo pasticcio ferrarese, tenendo appunto presente il sottile filo d'asfalto che collega il sontuoso Palazzo Ducale di Modena al castello estense di Ferrara.

Forse perché non era giornata, forse perché ad un certo punto l'erede ha pensato bene di ingollare una biglia d'acciaio, insomma, il pasticcio ferrarese non è uscito esattamente come volevo io, è venuto più che altro un mezzo disastro alla modenese, ma certamente me ne ricorderò a lungo, grazie soprattutto alla prodezza del fachiro in erba.

Il mio entusiasmo per il pasticcio ferrarese rimonta all'estate scorsa, quando ne mangiai uno monoporzione proprio a Ferrara nell'osteria "al Brindisi", taverna di antichissima tradizione, scegliendo sul menu uno degli "itinerari gastronomici" proposti.
In seguito, cercando il pasticcio sul web, avevo trovato questo bell'esemplare creato della signor(in)a Frabattista che mi aveva ancor più entusiasmato.

Purtroppo durante la cottura la mia cupola brunellesca s'è afflosciata inopinatamente, producendo un pasticcio nel senso letterale del termine anziché una mirabile semisfera degna del Pantheon.

Per la frustrazione ho pensato di dedicarmi ad altro, una focaccia pugliese, dove le sublimi geometrie architettoniche tridimensionali non sono richieste e ci si accontenta della più comoda realtà a due dimensioni. Prossimamente su questi schermi.

Chi nonostante tutto volesse cimentarsi, sappia che con queste proporzioni combinerà sicuramente un bel pasticcio, bruttarello a vedersi, ma comunque di buon sapore.
Solo un mezzo disastro, via.

Ingredienti per la pasta frolla:
400g di farina
150g di burro
100g di zucchero fine
1 uovo
1 tuorlo (per decorazione, opzionale)
2g di vaniglia (1 bustina)
latte q.b.
mezzo cucchiaino di lievito istantaneo
due pizziconi di sale

per il ragù:
150g di carne macinata di vitello
150g di carne macinata di suino (oppure pesto per salsiccia)
durelli di pollo e/o fegatini (opzionale)
1 chiodo di garofano
1 carota
1 gambo di sedano
1 cipolla media
10g di porcini secchi (se no grattatina di tartufo...)
30g di burro
mezzo bicchiere di vino bianco

per la besciamella:
200ml di latte
200ml di acqua
40g di farina
40g di burro
noce moscata q.b.
sale q.b.
pepe q.b.

per la pasta al ragù:
250g di pasta corta
una manciata di parmigiano reggiano


Procedimento:
Si comincia preparando il ragù, anche qualche giorno prima volendo. Per prima cosa mettete in ammollo i funghi secchi un'ora prima e anche più. Poi tritate finemente carota, sedano e cipolla e in una pentola di coccio preparate il soffritto con il burro, sfumando con il mezzo bicchiere di vino bianco dopo circa 5-6 minuti. Aggiungete anche il chiodo di garofano pestato. Mi piace molto cuocere il ragù in una pentola di coccio, perché conserva bene il calore e si può mettere il fuoco proprio al minimo. Aggiungete quindi la carne macinata, compresi i durelli e/o i fegatini se vi piacciono, mescolando bene e facendola rosolare per bene, quindi aggiungete i funghi tritati con la loro acqua filtrata in un colino. Quando il ragù avrà preso il bollore, salate senza esagerare.

Aggiungere brodo o acqua fino a coprire e lasciar cuocere per 5-6 ore coperto, col fuoco al minimo, poi assaggiate aggiustate di sale.
Preparate la pasta frolla impastando prima l'uovo con lo zucchero e poi aggiungendo la farina, il sale, la vaniglia e un pochino di lievito istantaneo. Aggiungete il burro a temperatura ambiente e impastate bene. Allungate con un goccio di latte, poco alla volta, dovete ottenere un impasto consistente, non attaccaticcio. Mettere da parte l'impasto al fresco prima di stenderlo. Dopo un paio d'ore prendere la pasta frolla e ricavate dei dischi.
Ricavate sempre due dischi alla volta, uno più grande ed uno un po' più piccolo che servirà da base. Coprite con dei panni la pasta frolla, mentre cuocete la pasta e preparate la besciamella.
Io ho usato della pasta corta, ma credo ci stia bene anche pasta tipo gli ziti teoricamente. tanto poi si taglierà il pasticcio a spicchi, quindi non vedo perché stare a sottilizzare, basta che sia pasta bucata, non spaghetti o farfalle, ecco. La pasta andrà scolata al dente, 2 minuti prima del tempo di cottura e andrà condita con il ragù e del parmigiano reggiano grattugiato. Nel mentre preparate la besciamella, facendo prima soffriggere il burro e appena inizierà a sfrigolare versate la farina, mescolando bene. Quando il composto inizierà a schiumare, aggiungete un po' alla volta il latte allungato con l'acqua, lasciandone circa un quarto del totale nel recipiente. Salate leggermente e continuate a mescolare a fuoco medio finché la besciamella inizierà a rapprendersi. Grattateci dentro un po' di noce moscata e di pepe nero. Quando la besciamella sarà cremosa, aggiungete il rimanente liquido, deve risultare della consistenza di una pappetta, non essere solida come un budino.
A questo punto se avete il tartufo come previsto dalla ricetta tradizionale del pasticcio ferrarese, credo lo si possa aggiungere indifferentemente alla besciamella o sopra alla pasta, alla fin fine sempre nello stesso posto andrà a finire. Non avendolo, non mi sono posto il problema :-)

Unite la besciamella alla pasta condita col ragù e cominciate a disporla sui dischi, in modo da formare una cupola. Coprite la cupola con il disco più grande ed aiutatevi a sigillare il tutto con un bordo di pasta frolla (vedi foto).

Potete decorare la cupola con dei ritagli di pasta frolla della forma desiderata, sicuramente sarete più efficaci di me. Spennellate di uovo allungato con un goccio di latte se volete l'effetto lucido e rosso vivo. Infornate a 180 gradi per 30-40 minuti, regolandovi col colore della pasta e con il profumo.
Insomma, d'aspetto non è venuto il granché, ma il pasticcio ferrarese era decisamente buono.

Magari lo rifarò più avanti per festeggiare l'espulsione della biglia d'acciaio.
Vai tu a capire i gusti di questa gioventù d'oggi, mah!

venerdì 13 febbraio 2009

Zuppa di cicerchie no global

C'è chi sostiene che la globalizzazione minacci certe nostre specialità alimentari e tradizioni.

C'è addirittura chi, oltre a sostenerlo, agisce concretamente nel maldestro tentativo di limitare le libertà gastronomiche, inventando di sana pianta ottusi provvedimenti o suggerendo di boicottare certi prodotti tipo gli ananassi.
La questione mi tocca particolarmente da vicino perché l'ananas è uno dei miei frutti preferiti e le prime volte che andavo in Messico, mia moglie (che a quel tempo ancora non era tale) mi faceva sempre trovare un bell'ananas formato basilica al mio arrivo.
Altro che quella striminzita mela proibita di Eva!

Questi divieti in teoria dovrebbero stimolare il consumo di prodotti locali in base al ragionamento che, se uno non trova l'ananas, allora sarà costretto a comprare qualcosa di locale, tipo quattro mele trentine o tre pere emiliane appena colte dal frigo.

Peccato che anche le mele e le pere spesso vengano dal Cile o dall'Argentina, soprattutto quando è finita la stagione da quel pezzo e allora uno magari finisce per comprare una cassa di birra tedesca o due bottiglie di vino australiano o una aspirapolvere olandese oppure un bell'ananas di plastica made in China.

Faccio questo esempio bislacco solo per instillare il dubbio che l'equazione:
ananas = 4 x (mele autarchiche)
magari non funziona come si vorrebbe e alla fine toccherà addirittura constatare, come dicono i compaesani del ministro Zaia, che fu peso el tacón del buso.

Da parte mia, anziché adottare improbabili rappresaglie tipo fare lo sciopero della sopressa di Schio, dichiarare l'embargo al pandoro veronese o preparare una sacrilego kebab con radicchio trevigiano, preferisco parlare di qualche prodotto poco conosciuto tipo appunto l'antichissima cicerchia che, combinata con dell'ottimo chile guajillo rigorosamente no global cresciuto sul mio patriottico balcone, produce una zuppa dal sapore virilmente piccante e dalla fiera consistenza.

La cicerchia è un legume noto fin dai tempi dei Romani con il nome di cicercula. C'è chi avverte che è tossica in dosi non meglio specificate (può arrivare a provocare una patologia chiamata latirismo), ma, m'immagino, solo se uno se la magna a colazione, pranzo e cena per 7 giorni alla settimana e non una tantum.

In ogni caso, se diventate paralitici dopo aver mangiato la zuppa di cicerchia IGP, citofonate al ministro Zaia, cultore delle denominazioni protette, non a me :-)

Ingredienti x 6 persone:
500g di cicerchie
400g di pomodori pelati (1 scatola)
1 cipolla media
1 carota media
2 foglie di salvia
2 rametti di menta
2 ciuffetti di rosmarino
2 peperoncini grandi secchi
2 cucchiai di olio extravergine
pepe nero macinato q.b.
sale q.b.

Procedimento:
ammollare le cicerchie per almeno 8 ore, risciacquarle e metterle a cuocere in acqua senza sale per 45 minuti circa. Scolatele e, una ad una, sgusciatele (auguri!).
Preparate un soffritto con cipolla e carota tritate finemente, poi quando le verdure saranno appassite, aggiungete il trito di salvia, menta e rosmarino e il peperoncino spezzettato. Continuate a soffriggere qualche istante e poi aggiungete il pomodoro, le cicerchie e sufficiente acqua o brodo per coprire tutto, infine salate. Cuocere senza coperchio per almeno una mezzora.


La zuppa di cicerchie ci è veramente piaciuta, questo legume ricorda le fave ma ha un sapore più delicato e un odore meno penetrante durante la cottura.
L'unica vera tortura è dover sbucciare le cicerchie una ad una.

E se avete brevettato un metodo per pelare le cicerchie senza ritrovarvi in pensione nel frattempo, parliamone, sapete dove trovarmi.

giovedì 1 gennaio 2009

Turrón de Jijona (casero)

Benché per molti di noi la parola torrone (turrón) evochi soprattutto il tipico dolce dal colore bianco e prodotto con chiare d'uovo, miele, zucchero e mandorle, sia in Sicilia, sia in Spagna, ma anche in Messico, non necessariamente si intende la stessa cosa.
Per esempio, il marito di mia cugina, siciliano, quando vede una stecca di croccante alle mandorle (quello scuro, fatto con lo zucchero caramellato) esclama: buono il torrone!

turron de Jijona fatto in casa

Conobbi il turrón de Jijona alcuni anni fa a casa del grande Maestro Felix Ayo, illustre violinista, conosciuto grazie a mia moglie, e rimasi estasiato da questo dolce spagnolo tipicamente natalizio. Da allora in un modo o nell'altro cerco sempre di procurarmene una confezione per le feste di fine anno. Quest'anno ho dovuto fare di necessità virtù e ho deciso di fare l'esperimento del torrone casalingo e devo dire che sono abbastanza soddisfatto della riuscita anche se voglio rifarlo con miele di fiori d'arancio al posto del millefiori.
La storia del torrone spagnolo è secolare e la sua origine non è del tutto chiarita, forse araba, forse no, la prima ricetta scritta pare sia quella contenuta nel manuale per donne (manual de mujeres) risalente al XVI secolo, dove tra varie ricette sia di cucina, sia di farmacia, c'è anche la ricetta del torrone, molto simile a quella a noi nota.
Riproduco e traduco il simpatico paragrafo in oggetto:

Para cada libra de miel una clara de huevo muy batida y junta con la miel. Y batida mucho, dejarla reposar un día. Y al otro día, cocer la miel meneándola siempre sin parar hasta que esté muy cocida. Ver se ha si está cocida de esta manera: echad una gota de miel en una escudilla de agua fría, y si después de estar fría se desmenuza, es cocida y si no, no. Y como esté cocida, echad dentro piñones, o almendras, o avellanas tostadas y mondadas. Y esté un poco al fuego. Y luego quitadlo, y hacer piñas o tajadas, lo que más quisiéredes, dello.

Per ogni libbra di miele (serve) una chiara d'uovo ben montata e si mescola col miele. Si mescola molto e si lascia riposare un giorno. Il giorno dopo, cuocere il composto mescolandola sempre, senza fermarsi, finché non sarà cotta. Per vedere se è cotta, fate in questo modo: buttate una goccia del composto in una scodella d'acqua fredda e se dopo essersi raffreddata si sbriciola, allora è cotta, se no, no (la logica non fa una grinza!). E quand'è cotta, buttateci dentro pinoli o mandorle o nocciole tostate e pelate. Lasciare un po' sul fuoco. Poi togliere dal fuoco e ricavare delle pigne o delle porzioni, come meglio preferite.

Le ricette rinascimentali sono uno spettacolo, soprattutto nella sintassi, non c'è che dire.
Ah, per chi si chieda quant'era una libbra, secondo il manuale di cucina rinascimentale mantovano corrispondeva a circa 300g.

Il turrón de Jijona però appartiene alla varietà dei torroni morbidi e la sua elaborazione è meno impegnativa. A quanto pare per essere vero turrón deve contenere il 64% di mandorle sul totale, per cui non resta che trarne le logiche conseguenze.

Ingredienti:
200g mandorle (devono essere il 64% del totale)
110g miele millefiori (ma si consiglia quello di fior d'arancio)


Procedimento:
per prima cosa prendere le mandorle pelate e tostarle. Se non avete mandorle pelate, potete pelarle facilmente immergendole 3-4 minuti in acqua bollente e poi scolandole. Siccome anche io avevo mandorle non pelate, dopo averle asciugate con un panno, le ho prima tostate un po' in padella per togliere velocemente l'umidità e poi nel fornetto a 150 gradi, finché non sono diventate marroncine chiaro, come nella foto. Una volta tostate, vanno lasciate raffreddare completamente, cosa non difficile in questo periodo se le mettete fuori dalla finestra.

Una volta raffreddate, occorre macinarle. Io uso il mio fido macinino da caffè Moulinex, che deve avere essere uscito dalla garanzia quando ancora andavo a scuola con le braghe corte. Le mandorle vanno ridotte a polvere molto fine, quasi una pasta. Quindi si aggiunge il miele, mescolando bene, fino ad ottenere un impasto compatto che tenderà a formare una palla. Più mescolate, meglio è, tanto che in italiano esiste l'espressione, che io uso spesso, menare il torrone per indicare un'azione particolarmente noiosa. La Cucina Italiana sostiene che la parola torrone viene da torrione, l'antico nome del Torrazzo, il campanile del duomo di Cremona, patria del torrone italiano. Leggenda o storia?
La città fu sotto la dominazione spagnola a partire dal 1535, quindi o la ricetta la portarono gli spagnoli, ereditata dagli arabi come sembra verosimile oppure la presero ai cremonesi per trapiantarla a Jijona (piuttosto improbabile). Sia come sia, il torrone di Cremona è fantastico ed assomiglia spaventosamente al turrón di Alicante.
Chiusa la parentesi polemica.


versare il composto su un vassoio o un piatto piano e stenderlo uniformemente con l'aiuto di un paio di coltelli dalla lama ampia o delle spatole.


Una volta formato questo panetto compatto, lasciatelo a riposo, se resistete anche vari giorni, coperto, dopo di che potete ricavarne simpatiche formine con degli stampini, per migliorarne la presentazione.

Io non ho resistito.

mercoledì 17 dicembre 2008

Oggi stracotto

Siccome la stagione è propizia, in questi giorni, a detta del mio macellaio equino e solidale, e non solo lui, sembra ci sia la corsa a fare lo stracotto con la polenta.
Queste belle giornate umide e fangose evidentemente spronano le buongustaie ed i buongustai a preparare qualcosa di succulento e impegnativo, anche se lo stracotto in realtà è più una questione di pazienza che non di reale difficoltà.
Ho quasi sempre mangiato stracotto fatto a base di carne di maiale, ma questa volta ho deciso di provare quello di guanciale di cavallo, perché si sa, in mancanza dei somari, corrono soprattutto i cavalli!
Dico questo perché il mio macellaio di fiducia asserisce che, almeno in Emilia, di somari, a parte alcuni casi umani, non se ne vedono proprio, anzi, lui sostiene che se qualcuno vi spaccia della carne di somaro, o mente sapendo di mentire oppure chissà cosa vi sta rifilando.
Ci manca solo di dover fare la prova del DNA allo stracotto!


Ingredienti:
1kg di guanciale di cavallo (circa, non stiamo a guardare il grammo, a caval donato...)
2 cipolle medie
1 carota
1 gambo di sedano
1 foglia di alloro
mezza bottiglia circa di vino rosso o bianco di qualità
pepe nero in grani q.b.
2 spicchi d'aglio schiacciati
2 chiodi di garofano
cannella macinata q.b.
sale q.b.



Procedimento:
si prenda il guanciale e se il macellaio non ve l'ha già tagliato e pulito dai tendini, armati di un coltello affilato, togliete le parti dure. Aprite una bottiglia di vino rosso BUONO e sacrificatela, se ne andrà una metà abbondante e con la rimanente potrete consolarvi per il dispiacere :-)
Ma quale sarà un vino rosso adatto per lo stracotto?
Tenendo presente che lo stracotto è sicuramente un piatto di origine nordica (inteso come pianura padana in senso lato), probabilmente ciascuna zona usa un buon vino rosso locale, quindi c'è solo l'abbondanza della scelta e probabilmente c'è da iniziare un dibbbbattito su quale possa essere il vino che rende meglio, anche se de gustibus non disputandum est. Io opterei per un vino corposo invecchiato almeno un paio d'anni, meglio tre o quattro.
Insomma, il tavernello no, eh?
Prendete un contenitore di vetro, col tappo magari, e metteteci dentro i pezzi di carne, coprendoli col vino. Tagliate a rondelle una carota, una cipolla e mezzo gambo di sedano, schiacciate i due spicchi d'aglio e buttateli nella marinata insieme alle altre spezie. Io ho lasciato marinare la carne sul balcone in ombra per 36 ore, ma basta anche meno.
Quando finalmente sarà venuta l'ora di preparare lo stracotto, colate il liquido e mettete da parte la carne, raccogliendo le verdure e le spezie. Poi pigliate la carota, la cipolla e il sedano e fateci un bel soffritto in una pentola capiente, a cui aggiungerete la carne, che va fatta rosolare a fuoco vivo per alcuni minuti.
C'è chi la infarina prima di rosolarla, ma non mi sembra fondamentale.
Quando la carne sarà ben rosolata su tutti i lati, aggiungete il liquido della marinatura. Le verdure della marinata potete tritarle a loro volta e aggiungerle assieme alle spezie che avete filtrato. Una volta raggiunto il bollore, abbassate il fuoco al minimissimo e continuate la cottura rigorosamente con coperchio per almeno 5 ore. Il liquido non deve asciugarsi completamente, se no finisce che lo stracotto s'attacca, ma deve un po' addensarsi man mano che evapora lentamente.
E se dopo aver giustiziato lo stracotto dovesse avanzare un po' di condimento con qualche rimasuglio di carne, tenete presente che ci si può condire la pasta, meglio se pappardelle all'uovo.


E in mancanza delle pappardelle, si prestano anche le mafalde.

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