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domenica 19 dicembre 2010

Metti un giorno le ciambelline a colazione

Non so a casa vostra, ma a casa mia ogni tanto qualche famigerata "merendina" capita che venga acquistata. Poca roba, parliamo di una volta al mese, ma non tanto per questioni ideologiche, quanto per evidente abbondanza di alternative :-D

Siccome però certe merendine, non c'è nulla da fare, ci piacciono proprio, può nascere legittimamente il desiderio di creare delle imitazioni caserecce. Curiosamente la famigerata merendina sembra essere uno dei fattori unificanti di tanti popoli del mondo e la classica ciambellina con lo zucchero a velo probabilmente conta più imitazioni della settimana enigmistica e delle tagliatelle al ragù. Per cui se in Italia ci sono le ciambelline Mister Day e una miriade di altre versioni semi industriali, in Spagna ci sono las rosquillas Bimbo, che in Messico diventano donitas Bimbo.

Se una cosa subisce tante imitazioni, dev'essere perché piace proprio a tutti o quasi.
Insomma, confesso che m'era venuta voglia di far colazione con queste ciambelline delicate e tra i vari modi in cui si possono preparare, perché ne esiste più d'uno, ho pensato di adoperare la ricetta di ciambella allo yogurt della mia amica Valentina, che me ne fece dono qualche settimana fa.
Il pregio principale della ciambella allo yogurt è nella sua piacevole umidità e spugnosità, oltre che nel gusto delicato. L'unica variante rispetto alla ricetta di Valentina è l'utilizzo di yogurt alla vaniglia anziché neutro.

Ingredienti per 10-12 ciambelline alla vaniglia spugnose:
1 vasetto di yogurt alla vaniglia
1 vasetto di zucchero semolato
1 vasetto di olio di mais
3 vasetti di farina
3 uova
una bustina di lievito vanigliato (16g circa)
la scorza di mezzo limone grattugiata
un pizzico di sale
zucchero a velo per decorare

Procedimento:
con il vasetto dello yogurt a fare da misurino, si mescolano tutti gli ingredienti nell'impastatrice o anche nel robot da cucina. Si imburrano e infarinano gli stampini e poi si versa il composto non oltre la metà del recipiente perché il volume è destinato a raddoppiare.

Si cuociono in forno a 180 gradi (o qualcosa in meno) per circa 30 minuti. Con sei stampini ho dovuto fare due turni di cottura, svuotando e ripetendo l'operazione di infarinatura, per cui varrebbe la pena avere 10 o 12 stampini per cuocerli tutti in un'unica volta. Ho usato degli stampini di alluminio che mi son costati una mezza fortuna, spero che Babbo Natale me ne porti altri sei...

Prima di sformare le ciambelline, conviene attendere qualche minuto, se no si rischia di romperle. Con l'aiuto di un coltello staccate delicatamente le ciambelline dalle pareti se ce ne fosse bisogno, di solito è la parte centrale la più soggetta ad attaccamenti.

Quando le ciambelline saranno fredde o magari prima di consumarle, cospargerle di zucchero a velo. Si conservano bene per qualche giorno in un contenitore chiuso.

E buona colazione a tutti!

Aggiornamento: ho fatto anche una variazione di queste ciambelline usando yogurt al cocco e sostituendo un vasetto di farina con uno di amido di mais:


Ingredienti per 10-12 ciambelline al cocco (leggermente meno spugnose):

1 vasetto di yogurt al cocco
1 vasetto di zucchero semolato
1 vasetto di olio di mais
1 vasetto di amido di mais (maizena)
2 vasetti di farina
3 uova
una bustina di lievito vanigliato (16g circa)
un pizzico di sale

per la glassa: 200g zucchero a velo
1 chiara d'uovo
il succo di mezzo limone
un cucchiaio di cocco grattugiato

Procedimento:
il procedimento è identico a quello sopra, ovviamente si aggiunge la glassa quando le ciambelline si sono raffreddate. Per fare la glassa bisogna prendere una chiara d'uovo e montarla quasi a neve. Non è necessario che diventi dura, basta che sia bella spumosa. A quel punto si aggiunge lo zucchero a velo e il succo di limone un po' alla volta, controllando la fluidità del composto.


Dovrebbe rimanere abbastanza fluida da poterla colare sopra le ciambelline, una densità come quella del miele diciamo. Il cocco grattugiato si può aggiungere alla glassa direttamente o spolverizzare sopra, come ho fatto io.

sabato 11 dicembre 2010

Focacce leve di Gallicano (Lucca)

Qualche settimana fa, mentre cercavo non ricordo cosa, mi sono imbattuto nelle focacce leve di Gallicano che, per la somiglianza sia nell'aspetto, sia nel modo di cuocerle, mi ricordano parecchio le crescentine modenesi.


Non avendo mai visitato Gallicano, piccolo comune montano della provincia di Lucca, non lontanissimo da qui, la mia imitazione di focacce è basata più sul sentito dire e sulla sensazione visiva, oltre al fatto che senza dubbio crescentine, ciacci, necci, borlenghi e berlenghi, focacce leve, panigacci e via dicendo sono tutti figli di una "ricetta" preistorica dove il comune denominatore doveva essere la fame e la disponibilità degli ingredienti. A rafforzare probabilmente questo vincolo di parentela c'è anche il fatto, non so quanto casuale, che Gallicano nel XVI secolo rientrava tra i possedimenti della corte Estense i quali ovviamente comprendevano anche buona parte degli attuali comuni della provincia modenese e questo forse può spiegare la diffusione capillare di ricette simili, i cui nomi però cambiano ad ogni incrocio secondo la migliore tradizione italiana.

La particolarità delle focacce leve di Gallicano è la presenza della patata lessa schiacciata nell'impasto (che curiosamente mi ricorda la ricetta della focaccia pugliese). Se questa aggiunta sia nata per compensare la scarsità di farina o per una questione di gusto io non saprei dire, ma mi pare più probabile la prima ipotesi.

Lungi da me dare LA ricetta ufficiale delle focacce leve, che peraltro non ho trovato in rete, se non in termini abbastanza vaghi, senza misure, la mia sarà una specie di imitazione casereccia e sicuramente viziata dall'ascendenza padana. Il risultato però è stato quasi entusiasmante, perché le focacce leve, grazie alla presenza della patata lessa, emanano un profumo delizioso, con sentore quasi di castagna. Per avvicinarmi all'originale ho anche completato la cottura con una passata vicino al camino e non so se per suggestione o per altro, m'è parso che abbiano acquistato una fragranza speciale.

Le focacce leve, dice Daniele Saisi, si prestano per accompagnare alcuni piatti "poveri", per non dire poverissimi, quali la minestrella con gli erbi, una zuppa a base di verdure di campo oppure i fagioli all'olio, ma sono anche raccomandatissime con formaggio pecorino fresco e salumi tipici della zona quali la pancetta arrotolata, il biroldo (un insaccato imparentato con il sanguinaccio) e il lardo (quest'ultimo è un classico anche con le crescentine guarda caso).


Non avendo erbi propriamente detti a disposizione ho rimediato accompagnando le mie focacce leve con le seguenti pietanze:
* un misto di erbe di campo saltate in padella con aglio
* formaggio caprino fresco profumato con timo, maggiorana e salvia
* pecorino toscano fresco tagliato a fette sottili
* pancetta arrotolata toscana
* finocchiona
Ahimè il biroldo qua non sanno proprio cosa sia.


Ingredienti:
500g di farina tipo 0
125ml di latte sostituito con acqua dopo suggerimento anonimo
125ml di acqua  250ml acqua dopo suggerimento anonimo
50g di strutto  eliminato dopo suggerimento anonimo
8g di sale
6g di lievito di birra (un quarto di cubetto)
1 cucchiaino di zucchero
1 patata media (150g circa) di quelle farinose.

Procedimento:
lessate la patata, pelatela poi schiacciatela con la forchetta. Impastate la farina con il lievito disciolto con lo zucchero (basta mescolare zucchero e lievito per qualche minuto), la patata schiacciata, il sale, il latte, l'acqua e lo strutto a temperatura ambiente, fino a ottenere una massa liscia e morbida, non appiccicosa.

Suddividere l'impasto in porzioni della grandezza di un pugno e lasciarle lievitare al coperto fino al raddoppio. Quando saranno lievitate, stendetele fino ad ottenere dei dischi dello spessore di mezzo dito e poi lasciatele lievitare una mezzora ancora.

Le focacce leve si cuociono negli appositi strumenti dette cotte (che nell'appenino Modenese usano per i ciacci e i berlenghi tradizionali di cui un giorno o l'altro parlerò). Non avendo le cotte, ma disponendo della piastra con la pietra refrattaria per le crescentine, ho usato quella e poi le ho passate brevemente nella padella piatta (il comál come diremmo in Messico...) sul camino. Una mi è anche ruzzolata nella cenere e il sapore m'è sembrato ancora migliore!

È bene mangiarle appena fatte, oppure surgelarle e poi riscaldarle nel fornetto per restituirgli la giusta consistenza.

domenica 5 dicembre 2010

Kranz, schon wieder

Oggi si ri-parla di Kranz, cioè di quel bel dolce di origine tedesca a forma di ciambella o per essere più filologici, a forma di corona, già visto su questi schermi, sia nella versione simile a quella di oggi, sia nella variante con i marron glacés.


Un po' perché ne pativo voglia, un po' perché, come disse a suo tempo Nonna Ivana, chiamare Kranz un dolce a forma di treccia era improprio, per cui era necessario produrre finalmente un kranz a forma di corona.
Prima però mi era sorta una curiosità. Va bene che la ricetta è di origine tedesca, però i tedeschi 'sto benedetto Kranz come lo faranno veramente?
Dopo un po' di tentativi ho capito (o mi è parso di capire visto che il mio tedesco è un po' arrugginito...) che il parente più prossimo del kranz italianizzato sia lo Schwäbischer Kranz, cioè la ricetta del kranz proveniente dalla zona a sud-ovest della Baviera. Se fossi stato più aderente alla versione tedesca, avrei dovuto rifinirlo con un po' di glassa, ma andando di fretta, mi sono fermato alla gelatina di albicocche.

Le dosi sono state leggermente ritoccate rispetto alla mia prima versione, ma solo per questioni empiriche.

Ingredienti:
350g di pasta sfoglia
320g farina tipo 00
250g uvetta (già ammollata)
150g canditi d'arancia
100g burro
2 uova
1 tuorlo (per decorare)
50g zucchero semolato
50g zucchero in granella
12g lievito di birra (mezzo cubetto)
3 cucchiai di latte
50g di gelatina di albicocche o confettura.
1 bicchierino di rhum
pizzico di sale

Procedimento:
anziché stare a fare il lievitino a parte, avevo fretta e quindi ho fatto lievitare l'impasto tutto assieme, per cui ho impastato subito farina, uova, lievito disciolto in un cucchiaino di zucchero, lo zucchero rimanente, il pizzico di sale, il latte e il burro ammorbidito. Poi ho lasciato a lievitare per circa un'ora, senza aspettare proprio il raddoppio. A quel punto sulla spianatoia con l'aiuto di un po' di farina extra ho fatto tre piccoli panetti che ho stirato fino a raggiungere la lunghezza di tutto il piano di lavoro, quindi assai più lunghi e più stretti dell'altra volta (50cm contro 24cm). Ho anche allungato le tre strisce di pasta sfoglia per portarle alle stesse dimensioni.

Dopo aver preparato le strisce di pasta, ho iniziato a sovrapporle alternando uno strato di canditi e uno di uvetta ammollata in acqua tiepida e rhum. Terminata questa operazione ho girato a treccia l'impasto e poi l'ho disposto in cerchio, cercando di allargarlo delicatamente.

Poi ho lasciato lievitare per circa 3 ore nel forno spento. Infine ho spennellato la superficie con il tuorlo d'uovo e ho decorato con altri canditi, uvette e granella di zucchero.

Ho infornato per circa 45 minuti, controllando la cottura con il classico stecchino. All'uscita ho versato sopra la gelatina di albicocche sciolta a bagnomaria.

Benché ne abbiamo spazzolato via quasi metà appena sfornato, questo dolce per me migliora a partire dal giorno dopo.

domenica 28 novembre 2010

Delizie pugliesi per un pranzo da leccarsi i baffi

Di tanto in tanto capita che l'insostituibile Fafa, già assurta agli onori delle cronache tlazzesche per un'iniziativa umanitaria simile tempo fa, ci omaggi con delle primizie da leccarsi barba, baffi e capelli (per chi ce l'ha ancora tutti).

Quando non si porta appresso (in treno!) svariati chili di taralli (che infatti vedete nella foto) di almeno quattro o cinque varietà distinte (alla cipolla, al peperoncino, al naturale, al pepe, ecc.) , da brava mamma pugliese di una volta comanda al figlio, il quale (casualmente?) è di passaggio da queste parti e distribuisce ogni ben di Dio al parentado sparpagliato sulla via Emilia... Noi non siamo esattamente parenti, ma il buon Franco lo ringrazio lo stesso perché se non fosse per lui, io non avrei la più pallida idea di com'è una vera burrata pugliese o la scamorza fresche di giornata. E neppure le olive alla calce, dal sapore inconfondibile, di cui vi lascio un link per leggere il curioso processo di preparazione.

E con tutto questo po' po' di meraviglie, volete che mi metta pure a cucinare?
Ma neanche per sogno, oggi è festa sul serio.

Buon appetito eh!

domenica 21 novembre 2010

Caldo tlalpeño con toques de improvisación

Seppure di umilissime origini il caldo tlalpeño è un piatto squisito, ideale per certe giornate fredde e umide come quella dell'altro giorno.

Oggi però non do nessuna ricetta, sia perché la ricetta originale sarebbe di Nora che me l'ha gentilmente inviate per e-mail, sia perché poi l'autore del caldo tlalpeño delle foto non sono io ma mia moglie che da brava messicana conosce l'arte di riciclare (quasi) tutto quello che avanza.
Nella ricetta inviatami Nora racconta brevemente la storia del caldo tlalpeño, ossia di Tlalpan, cittadina inglobata dal monstruo, il DF, a sud-ovest di Città del Messico, dalla quale prendeva il nome una delle quattro strade principali conducenti all'antica Tenochtitlán. Dimenticati i fasti dei tempi che furono, a Tlalpan agli inizi del secolo scorso ci si arrivava in tram e per l'appunto dentro la stazione del tram pare che un'ignota cuoca cucinasse questo piatto diventato poi famoso con il passare dei lustri anche fuori da Città del Messico.

Il caldo tlalpeño sarebbe un piatto che si prepara appositamente, nel senso che non si parte da rimanenze, ma nulla vieta di farlo e siccome noi avevamo appunto del buon brodo superstite e della carne del relativo bollito, perché non trasformare il tutto in questo bel piatto, come si diceva una volta, confortante?

Partendo quindi dal brodo già pronto, mia moglie ha cotto a parte in acqua salata nell'ordine, due pannocchie tagliate in quattro parti, due carote e due zucchine che facevano la parte del chayote. Una volta cotte piuttosto al dente le verdure, ha aggiunto un po' della carne del bollito a pezzetti e una scatola di ceci e qualche foglia di epazote, ahimè secco anziché fresco. Infine, per uso personale, un mezzo avocado tagliato a cubetti e del formaggio tenero (della stupenda scamorza fresca di cui parlerò in separata sede), da aggiungere ad libitum assieme all'indispensabile chile chipotle, qui nella versione adobado, ma che nella versione di Nora è quello secco da aggiungere in fase di preparazione del brodo.

Volendo ci si può aggiungere anche una spruzzatina di lime fresco.

Mentre degustavamo il nostro caldo tlalpeño, mia moglie mi faceva notare che dovevamo essere gli unici in Italia o forse in Europa a pranzare in questo modo. Io non voglio attribuirmi meriti senza aver prima verificato, per cui alzi la mano chi stava consumando un rico caldo tlalpeño il giorno 19 novembre, 10000 km ad est di Città del Messico, chilometro più, chilometro meno.

Mi raccomando, non spingete! ;-)

giovedì 18 novembre 2010

Il gran giorno della Cucina Messicana Tradizionale (e pure della dieta mediterranea)

Ieri l'UNESCO ha dichiarato, assieme a numerose altre proposte, sia la Cucina Messicana Tradizionale, sia la cosiddetta dieta mediterranea, patrimonio immateriale dell'umanità.


Per quanto riguarda la prima, l'UNESCO sottolinea come la cucina messicana rappresenti un patrimonio culturale costituito da usanze tramandate di generazione in generazione sia nella coltivazione dei prodotti tipici, sia nella successiva trasformazione in una numerosa varietà di piatti tradizionali, utilizzando strumenti e tecniche che son cambiati assai poco nel corso dei secoli. Altrettanto caratteristico è il legame tra la gastronomia e la simbologia rituale/religiosa, con particolare riferimento alla festività del giorno dei morti, dove la cucina riveste un ruolo fondamentale nella celebrazione.

Con motivazioni simili l'UNESCO ha riconosciuto pure l'eccellenza della dieta mediterranea come insieme di tecniche e usanze distintive delle varie comunità affacciate sul mediterraneo (non solo l'Italia, ma anche Spagna, Grecia e Marocco), in cui la tradizione della conoscenza avviene soprattutto tramite il lavoro femminile.

Non so bene che tipo di vantaggi comporti essere un patrimonio immateriale dell'umanità, ma presumo che sia meglio esserlo piuttosto che no.

In ogni caso pare che lo zampone e i tortellini, almeno per il momento, siano destinati a rimanere patrimonio della modenesità...

Ce ne faremo una ragione davanti ad un bicchiere di lambrusco?

domenica 14 novembre 2010

Torta di mele campanine

Da un paio di giorni covavo voglia di torta di mele, vuoi perché avevo delle mele campanine da smaltire, vuoi perché è proprio una torta tipica della stagione, vuoi perché era finita la crostata di cocco, vuoi perché devo continuare la saga delle variazioni Tlazberg sulla torta di mele.


Armato di google non ho dovuto fare molti sforzi per imbattermi subito nella torta alle mele campanine delle Terre di Pico del signor Mazzoni, che non conosco, ma al quale faccio i complimenti per l'ottima ricetta. Le terre di Pico comprendono il territorio nei dintorni di Mirandola, ossia una parte consistente della cosiddetta Bassa Modenese, terra di meloni, angurie e frutta in generale, tra cui le mele campanine, un tipo di mela piuttosto piccolo, dalla polpa dura, consistente e decisamente profumata, molto utilizzata anche nel mantovano per farci la mostarda di mele grazie proprio alla capacità di non disfarsi durante la cottura.

Ingredienti:
1kg di mele campanine
250g di farina tipo 00
200g di zucchero
200g di burro
50g di pinoli
10g di lievito per dolci
4 uova
la buccia grattugiata di mezzo limone
un pizzico di sale

Procedimento:
montate il burro con lo zucchero fino ad ottenere una crema bianca spumosa, aggiungete un pizzico di sale, le uova una per volta, poi un po' alla volta la farina e il lievito istantaneo, infine la buccia grattugiata del mezzo limone. Quando avrete ottenuto un impasto viscoso ma liscio, aggiungete metà dei pinoli. In uno stampo apribile imburrato e infarinato versate il composto e poi procedete a pulire e tagliare le mele campanine. Per evitare che diventino scure le ho sbucciate e tagliate una alla volta, operazione piuttosto pallosa ve lo anticipo... Sì perché le campanine sono piccole e diventano scure alla velocità del fulmine, per cui appena tagliate vanno mescolate all'impasto.
Quando mancano le ultime 4-5 mele, accendete il forno e mettetelo su 180 gradi. Conservate un paio di mele per la decorazione finale che però potete fare barando come me, perché avevo leggermente meno di un chilo di mele campanine per cui ho affidato la decorazione ad una mela extracomunitaria :-D


Le torte di mele di solito le spolverizzo di zucchero perché così vengono leggermente meringate. Ricordatevi da ultimo di cospargere con i rimanenti pinoli.

Si cuoce per almeno 45 minuti o anche più, controllando con lo stecchino. Io l'ho cotta per 50 minuti poi l'ho lasciata nel forno spento per altri 30, finché non si è staccata dai bordi dello stampo da sola.

Come vedete i pezzetti di mela rimangono ben visibili e abbastanza sodi.

Una torta di mele semplice e genuina in cui il sapore delle mele campanine si sposa mirabilmente con il profumo della scorza di limone e dei pinoli.
Consigliatissima!

venerdì 12 novembre 2010

Risotto con le quaglie

Se non avete mai mangiato il risotto con le quaglie fino ad ora, sappiate che vi siete persi qualcosa di buono.


Oh, siete ancora in tempo a rimediare, sempre che non siate vegetariani, nel qual caso bisognerebbe prendere a prestito un po' di humour partenopeo e limitarsi al risotto con la quaglia fujuta (si dirà così? Attendo consulenze dalle frequentatrici vesuviane...).
Il risotto con le quaglie è un piatto che mia madre faceva di tanto in tanto ed era sempre una bella sorpresa perché in pratica si univa il piacere del risotto al gusto di sgranocchiare gli ossicini della quaglia abbrustolita in un croccante pigiamino di pancetta affumicata.

Dato che richiede un po' di tempo, si possono anche preparare le quaglie in anticipo, magari il giorno prima come ho fatto stavolta, dato che sarebbe difficile avere abbastanza tempo durante la settimana per cucinare con la dovuta calma a pranzo.

Ingredienti:
400g di riso
4 quaglie piccole
4 bacche di ginepro
4 foglie di salvia
4 fette di pancetta affumicata
4 cucchiai di latte
2 rametti di rosmarino
1 bicchiere e mezzo di vino bianco
mezza cipolla
50g di burro
30g di parmigiano reggiano grattugiato
pepe q.b.
sale q.b.

Procedimento:
prendete le quaglie pulite e fatele rosolare per bene con metà burro. Quando saranno ben rosolate, salate e pepate senza esagerare, aggiungete la pancetta tagliata a strisce, la salvia, le bacche di ginepro schiacciate e i rametti di rosmarino. Quando la pancetta avrà preso colore, versate un bel bicchiere di vino bianco secco e coprite, girando le quaglie di tanto in tanto. Ci vorrà circa un'oretta per cuocerle, quando il liquido sarà ristretto, versate il latte, attendete che coaguli e poi spegnete.

Per il risotto procedete inizialmente al solito modo, soffriggete la mezza cipolla tritata molto finemente per qualche minuto con l'altra metà del burro, poi quando è diventata trasparente versate il riso e mescolate di continuo, facendolo tostare per diversi minuti (ma senza bruciarlo eh!). Aggiungete mezzo bicchiere di vino bianco e poi acqua bollente con mezzo dado da brodo (o brodo vero) fino a coprire completamente il riso. Salate e proseguite con la cottura aggiungendo acqua un po' alla volta, poi dopo una decina di minuti, versate un po' del condimento prodotto dalla cottura delle quaglie, incluse le erbe, le bacche e alle "greppole" di pancetta e magari un'altra macinata di pepe.

Finite di cuocere il riso e unite un po' di formaggio parmigiano grattugiato, poi spegnete, lasciate riposare il risotto qualche minuto tappato nel caso fosse un po' troppo al dente.

Servite ciascun piatto con la quaglia di spettanza che ovviamente avrete tenuto al caldo nel frattempo.
Ah, la quaglia si mangia con le mani, onde evitare scene Fantozziane :-D


martedì 9 novembre 2010

Crostata di cocco meringata

Avevo promesso di non parlare più di crostate, ma il richiamo della crostata meringata al cocco è stato più forte di me, per cui dovrete rassegnarvi.

È il secondo tentativo di crostata al cocco, il primo mi era piaciuto abbastanza, ma mancava qualcosa, questo secondo tentativo mi è sembrato migliore per cui lo metto in archivio.
Per qualche imponderabile motivo avevo voglia di coniugare la meringa con il cocco, ma in maniera più decisa rispetto alla ciambella di mele e yogurt al cocco. È venuta fuori questa idea di crostata con uno strato di cocada messicana e sopra meringa francese, il tutto bilanciato con una fodera di cacao amaro per spegnere l'eccesso di dolce.
Come tutte le crostate, va lasciata a riposo per qualche ora o, ancora meglio, fino al giorno dopo.

Ingredienti:
250g farina
150g zucchero
125g burro
2 tuorli d'uovo (medio)
un uovo (medio)
un cucchiaio di sassolino o di vino bianco secco o di porto.
un pizzico generoso di sale

per la farcitura al cocco:
165ml di crema di cocco (una lattina)
75g cocco rapè
2 cucchiai di cacao amaro
un cucchiaino di estratto di vaniglia

per la meringa:
100g zucchero a velo
2 chiare (70g circa)

Procedimento:
preparate la pasta frolla mescolando gli ingredienti fino ad ottenere un impasto ben amalgamato. Mettete la pasta frolla in frigo (o al fresco) per almeno mezz'ora, poi stendetela in uno stampo a cerniera imburrato e infarinato.


Bucherellate la superficie con la forchetta per evitare che si gonfi durante la cottura. Infornatela da sola per circa 35-40 minuti a 180 gradi o comunque finché non risulti ben cotta e di color ambrato. Mentre la pasta frolla cuoce, preparate la cocada, scaldando la crema di cocco in un pentolino e unendo la raspatura di cocco e la vaniglia, la consistenza dev'essere piuttosto solida, vedi foto sottostante:

Ricordatevi di abbassare la temperatura del forno a 70-80 gradi dopo aver estratto la pasta frolla.
Prima di stendere la cocada, prendete due cucchiai di cacao amaro e distribuiteli sulla superficie della torta. Il cacao amaro toglie l'eccesso di dolce alla torta e inoltre impermeabilizza un po' la superficie della pasta frolla che altrimenti tenderebbe a inumidirsi.

A questo punto è ora di preparare la meringa: montate le due chiare d'uovo a neve e poi aggiungete lo zucchero a velo. Cospargete la superficie della torta e guarnite con un po' di cocco grattugiato.

Rimettete in forno quando la temperatura del forno sarà intorno ai 70-80 gradi per non meno di un'ora. Dopo questo tempo la meringa si sarà leggermente asciugata, ma rimarrà tenera. Se la volete più asciutta dovrete lasciarla più tempo.

Prometto che per almeno una settimana non parlerò più di crostate.

domenica 7 novembre 2010

Sopa aterciopelada de calabaza y garbanzos estilo Tlazolteotl

Siccome ci siamo svegliati con la nebbia e buona parte della mattina è stata dedicata a tagliar legna per il camino, verso le 11 m'è venuta voglia di qualcosa di buono, di caldo e di saporito e la mia fervida immaginazione ha prodotto questa zuppa vellutata alla zucca e ceci che in spagnolo ha questo nome assai pomposo sopa aterciopelada de calabaza y garbanzos.

Non è la prima volta che m'invento una zuppa a base di ceci, si prestano molto ad essere consumati in questo modo e la combinazione con zucca, ingrediente di stagione, ma messicanissimo d'origine, e il chile chipotle produce una zuppa abbastanza densa e dal gusto vagamente dolce e piccante (quanto piccante si può regolare in base ai propri gusti).

Si tratta anche una zuppa totalmente veggie, vegetariana, contenendo solo ingredienti di origine vegetale.

Ingredienti:
500g zucca cotta al forno
2 scatole di ceci cotti (circa 500g in totale di peso sgocciolato)
1 chile chipotle o 2 chiles morita
1/2 cipolla media
3 cucchiai di olio di mais
1 rametto di timo fresco
1l acqua
mezzo dado da brodo (oppure se avete brodo buono scalate la quantità dall'acqua)
mezzo cucchiaino raso di cannella macinata
il succo di mezzo lime
una macinata generosa di pepe nero
una grattata di noce moscata
sale q.b.

Procedimento:
dando per scontato che la zucca sia già stata cotta, procedete mettendo a bollire un litro d'acqua e soffriggendo mezza cipolla tritata finemente in tre cucchiai di olio di mais. Quando la cipolla è ben appassita, aggiungete 250g di zucca cotta a cubetti (la zucca rimanente la tenete per dopo). Va da sé che migliore è la zucca, migliore risulterà la zuppa, se la zucca dovesse essere completamente insipida, è meglio lasciar perdere.
Fate rosolare la zucca per qualche minuto, aggiungete una grattatina di noce moscata e di pepe nero, mescolate spesso, poi aggiungete l'acqua calda e salate leggermente. In un pentolino piccolo scaldate un po' d'acqua in più dove metterete il chile chipotle a bagno. Se invece del chipotle usate chile morita (che son più piccoli), fateli tostare qualche minuto prima di immergerli nell'acqua. Lasciateli a bagno per una ventina di minuti mentre la zuppa continua a cuocere. Aggiungete alla zuppa anche un rametto di timo fresco e continuate la cottura a fuoco basso. Dopo una ventina di minuti se avete un frullatore ad immersione potete frullare la zuppa prima di aggiungere i ceci, in questo modo la zuppa avrà una consistenza cremosa. Se non avete un frullatore ad immersione potete frullare un po' per volta nel frullatore normale. Una volta terminata questa operazione aggiungete i ceci e dopo una decina di minuti assaggiate per correggere la quantità di sale. Aggiungete anche appena un po' di cannella macinata, il succo di lime e infine la zucca rimanente tagliata a cubetti piccoli. Frullate anche il peperoncino a parte con un po' di liquido della zuppa. Una parte del peperoncino la unite alla zuppa e una parte la tenete da aggiungere a chi piace più piccante.

Quando la zuppa avrà raggiunto la giusta consistenza, servitela assieme a pane tostato o anche a nachos di tortilla di mais.

lunedì 1 novembre 2010

Arriba la focaccia genovese!

Se non fosse per il mio amico Arrigo, probabilmente a quest'ora starei ancora ad alambiccarmi il cervello su come fare per poter finalmente dichiarare: habemus fugassam!


E invece grazie ad una sua segnalazione, il classico intreccio all'italiana, un amico mi ha rivelato di aver provato la ricetta di un amico... ecco qua finalmente una focaccia genovese di tutto rispetto.
In realtà potrei farla molto breve e rimandare tutti quanti a vedere la videoricetta della focaccia genovese di Vittorio anche perché cosa c'è meglio di una videricetta?
Epperò so che là fuori ci sono alcuni pigroni che non cliccherebbero su un link nemmeno a pagamento, perciò la ricetta la scrivo ugualmente.

Come si vedrà la ricetta in questione non è tanto diversa nelle dosi da quella che usai a suo tempo, ma siccome i dettagli sono importanti, anzi fondamentali, ci sono due o tre quisquilie che alla fine fecero una grande differenza e che qui sinteticamente riassumo:

1. il tipo di forno e la temperatura
2. la quantità di impasto
3. la salatura superficiale
4. l'acqua spruzzata prima della seconda lievitazione
5. la spennellatura d'olio finale

Tra questi fattori, il primo probabilmente è il più importante perché conferisce quel caratteristico color rossiccio-ambrato alla focaccia e per ottenerlo, dopo l'ennesimo tentativo insoddisfacente dell'altro giorno, ho proprio dovuto rinunciare ad usare il mio forno di fiducia e passare al fornetto De Longhi (pubblicità superliminale...) di assai più modeste pretese, ma solo apparentemente. In realtà avevo già utilizzato il fornetto in almeno un'altra occasione e con strepitosi risultati per i colchones de naranja, l'unico inconveniente è dato dalla ridotta capacità che costringe a due cotture successive.
Grazie alla maggiore vicinanza alla fonte di calore, la cottura avviene più rapidamente e probabilmente anche a temperatura più alta rispetto al forno grande tradizionale.
Essendo le teglie in dotazione più piccole di quelle usate da Vittorio, ho fatto due rapidi conti per ricalcolare le quantità di impasto necessarie per una doppia focaccia.
Le dosi indicate sono quindi per due teglie piccole da 29x25cm, pari a 1450㎠, per calcolare le quantità adatte alla vostra teglia o teglie se sono più di una, non dovete fare altro che calcolare la superficie totale e inserire il numero ottenuto nel campo "porzioni" del foglio di calcolo.


Procedimento:
Mescolate olio, acqua, sale, malto. Aggiungete metà farina e amalgamate, poi versate il lievito sciolto (io uso sempre il mio metodo di scioglimento, niente acqua, solo un cucchiaino di zucchero sul lievito e mescolare finché non si liquefa) e infine la farina rimanente. Ovviamente se usate un'impastatrice, tutto questo lavoro lo lascerete fare alla macchina...
Impastate finché l'impasto risulterà bello liscio anche se appiccicoso. A quel punto trasferitelo su una spianatoia infarinata e dopo averlo leggermente infarinato, copritelo e lasciatelo riposare almeno 15 minuti, ma se rimane anche 30 minuti a riposo non gli farà male. Trascorso il tempo prendetelo, dividetelo in due parti uguali, poi piegate ciascun impasto un paio di volte in tre parti (a portafoglio come si suol dire), spianando leggermente con le mani. Infine ungete con un paio di cucchiai d'olio ciascuna teglia (io le ho coperte con carta da forno per evitare che la pasta s'attaccasse al fondo) e metteteci sopra l'impasto. Ungetelo leggermente in superficie e poi mettetelo a lievitare in un posto riparato (dentro al forno ad esempio). Dato che ho usato abbastanza meno lievito rispetto alla ricetta originale, i tempi di lievitazione si sono allungati anche perché io l'ho eseguita a temperatura ambiente (21ºC), mentre Vittorio vedo che fa lievitare a 30ºC e ovviamente ci mette molto meno tempo. A suo tempo lessi che la temperatura di lievitazione determina il tipo di fermentazione e superando una certa temperatura la fermentazione diventa alcolica anziché ... (analcolica? chi si ricorda!). Insomma, alla fine il sapore cambia un po' :-) per cui rimango fedele alle mie lievitazioni lente e a temperatura ambiente.


Quando l'impasto avrà raddoppiato in volume, è ora di stenderlo nella teglia. Per fare ciò basta semplicemente ungersi le mani con un po' d'olio e schiacciare delicatamente fino a coprire tutto lo spazio a disposizione in maniera uniforme.

Terminata questa operazione salate gli impasti in superficie (senza esagerare ma generosamente) e lasciate riposare per circa 30 minuti, poi spruzzate con acqua tiepida e olio.

Infine procedete con a bucherellare l'impasto con le dita, fate conto di dover suonare un concerto di Rachmaninov come Igudesman e Joo. Terminata anche questa operazione non resta che condire le focacce a piacimento e lasciarle lievitare per un'oretta ancora.

Nel caso della focaccia alle cipolle, ho seguito l'esempio di Vittorio che sale e unge leggermente le fette di cipolla e poi le sgrana.

La cottura è durata circa 15 minuti nel fornetto sparato al massimo (250ºC).

Per divorarle ancora calde c'è voluto assai meno tempo ahimè...
Grazie per la bella ricetta Vittorio!

Post Scriptum (29 Aprile 2011)
Ultimamente l'ho rifatta cuocendola nel forno a legna e viene benissimo, basta rispettare la temperatura, sempre intorno ai 250-260 gradi e in meno di 15 minuti è pronta. Le foto qui sotto sono delle ultime due che preparai per il compleanno del pargolo, una al rosmarino e salvia e l'altra classica.

Focaccia al rosmarino e salvia

Focaccia classica

domenica 31 ottobre 2010

Os di mort o pezzi duri?

Tra le varie ricette mantovane tipiche della festività di questo periodo, ci sono le cosiddette ossa dei morti.

Gli os di mort, come vengono detti in dialetto mantovano, per quanto ne so, vengono anche chiamati meno poeticamente pezzi duri e mio nonno paterno li chiamava pittorescamente straca dént (stanca denti).

Sono un ricordo d'infanzia, dolcetti che mia madre mi dava da sgranocchiare quando i denti erano lontano dall'aver conosciuto le delizie del dentista e non erano stati arricchiti da ponti in oro-ceramica.
Se avete paura di rimetterci qualche otturazione, consiglio di immergerli nel caffè e pure così sono ottimi.

Questi dolcetti super semplici alle mandorle, senza lievito forse avranno qualche antenato ebraico, non è raro imbattersi in ricette a base di frutta secca di provenienza sefardita, ma come in tanti altri casi sono semplicemente diventati rappresentanti di una tradizione locale, anche se mi aspetto che qualcuno mi dica che questa ricetta è nota altrove con un altro nome o per altra ricorrenza.
Anzi, adesso che ci penso assomigliano un po' a quei dolcetti napoletani deliziosi che l'amica Sibbbì mi regalò l'anno scorso (come si chiamavano?!?! aiuto!).

La ricetta è pari pari quella che si trova sul ricettario di mia madre, dove aveva annotato che le era stata data dalla mitica signora Norma, mitica per me perché ne ho un vaghissimo ricordo risalente a non meno di quarant'anni fa, ma è sempre stata sinonimo di ricette di dolci deliziosi.
La forma a tibia è del tutto arbitraria, un piccolo omaggio al Messico dove in questi giorni tutti i dolcetti hanno forma di teschi e tibie, ma di solito i pezzi duri sono semplici bastoncini.

Ingredienti:
100g di zucchero semolato
100g di farina
100g di mandorle pelate
1 albume d'uovo
un pizzico di sale

Procedimento:
Nulla di più facile: tritate le mandorle grossolanamente poi mescolate alla farina, allo zucchero e al pizzico di sale, infine aggiungete un albume d'uovo e impastate a mano fino ad ottenere una specie di panetto piuttosto appiccicoso.

Stendetelo su una superficie liscia e con l'aiuto di carta da forno, se non volete impiastricciare tutto, rullatelo finché lo spessore non sarà di circa mezzo dito. Ricavate dei bastoncini tagliando l'impasto con un coltello oppure se avete molta pazienza, divertitevi a formare tibie e teschi. Io alla sesta tibia ne avevo già avuto abbastanza :-D

Disponete i bastoncini su un foglio di carta da forno dentro la leccarda in modo che poi si stacchino facilmente.

Si cuociono in forno a 140 gradi per circa 30-40 minuti. Prima di staccarli dalla carta lasciateli raffreddare e poi conservateli in una scatola di latta. Come tutti i dolcetti di questo tipo a me pare che col passare dei giorni diventino migliori.

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